Corriere della Sera - La Lettura

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- Di STEFANIA ULIVI

Avrebbe compiuto novant’anni il 6 febbraio il più cinefilo dei cineasti, militante e critico, eroe della Nouvelle vague. Ne parliamo con Frédéric Bonnaud, direttore della Cinémathèq­ue française. «L’erede? Arnaud Desplechin» «Ha imposto un’idea di cinema che non c’era. Non solo; oggi possiamo dire, anche a distanza di anni, che è stato il miglior critico cinematogr­afico francese. È stato capace di imporre il suo gusto: Alfred Hitchcock è merito suo. È stato un artista popolare, impresa difficile. Da voi in Italia c’è riuscito Federico Fellini»

«Questa osmosi tra schermo e vita, questo parlare di cinema per alludere alle proprie emozioni, questo rifarsi alla finzione per raccontare la verità, non è un gioco di citazioni fine a sé stesso: è l’essenza stessa dell’opera di Truffaut, il suo senso più profondo, la sua eredità». Avrebbe compiuto 90 anni il prossimo 6 febbraio il più cinefilo dei cineasti, militante senza tregua di un’arte che ha praticato, fino all’ultimo respiro, da spettatore, gestore di cineclub, critico, sceneggiat­ore, regista, attore. Una dedizione assoluta, come sottolinea Paola Malanga nella sua monografia Il cinema di Truffaut, che Baldini + Castoldi ripropone in versione aggiornata. Occasione per rilanciare l’interrogat­ivo: che cosa resta di questa devozione radicale? «La Lettura» lo ha chiesto a Frédéric Bonnaud, direttore della Cinémathèq­ue française. «Dobbiamo ammettere — riflette il critico e giornalist­a — anche se non ci fa piacere, che il cinema oggi è meno al centro della società di quanto non lo fosse all’epoca in cui François Truffaut era un giovane cinefilo, poi critico e regista. Sono almeno vent’anni che è così. Figure come JeanLuc Godard, Truffaut, Bertrand Tavernier, che condividev­ano una visione totalizzan­te e passionale del cinema sono oggi un po’ desuete. Ma penso che abbia vinto lui».

In che senso?

«Ha imposto un’idea di cinema che non c’era. Quella della Nouvelle vague: siamo diversi ma facciamo tutti film in prima persona singolare. Oggi ogni regista fa opere molto personali, parlando in prima persona. È evidente, persino banale, ma è stata una battaglia che lui ha vinto per tutti. Prima di lui il cinema francese era pieno di qualità industrial­e, ma mancava di personalit­à. Quello italiano lo era sicurament­e di più. Per arrivare a girare un film dovevi essere stagista, assistente, magari adattare un libro di successo. Con lui e la Nouvelle vague cambia tutto. Oggi realizzare un’opera prima è come pubblicare un romanzo d’esordio»

Truffaut ha vinto anche in altri sensi.

«Sicuro. Anche a distanza di anni si deve riconoscer­e che è stato il miglior critico cinematogr­afico francese. Forse figure come Éric Rohmer o Jacques Rivette dei “Cahiers du cinéma” erano più forti di lui dal punto di vista teorico. Ma quando rileggiamo i suoi testi, scritti da un autodidatt­a, ci rendiamo conto di quanto fosse capace di imporre il suo punto di vista. Per esempio sulla Nouvelle vague. Quando hanno iniziato a fare film, con grande successo, lui sosteneva: non abbiamo nulla in comune, non esiste nessuna onda. Ma quando fu attaccata, a partire dal 1962, è tornato giornalist­a, ha capito che bisognava difenderla, ha iniziato a dire che sì, quello era un movimento. Ma non solo. È stato capace di imporre il suo gusto. Se oggi tutti, anche i più giovani, conoscono Alfred Hitchcock è merito suo. Un cineasta d’avanguardi­a e insieme popolare. Negli Usa non lo prendevano sul serio, non ha vinto un Oscar, per dire. Truffaut ha dimostrato che il cinema che conta è quello di Hitchcock o Howard Hawks, del quale a Parigi stiamo facendo una retrospett­iva, non quello di cineasti acclamati come George Stevens (il regista de Un posto al sole e Il gigante, ndr)».

Nel 2014, a 30 anni dalla morte, la

Cinémathèq­ue gli ha dedicato una mostra, «Passion Truffaut». Serge Toubiana, il suo predecesso­re, ha scritto: «La sua morte ha lasciato un gusto amaro, un sentimento di incompiuto, di malinconia profonda».

«La cosa terribile è che è morto molto giovane, a 52 anni. I suoi colleghi della Nouvelle vague hanno tutti vissuto a lungo, Godard ha 91 anni. Ha avuto grande successo all’inizio, con I 400 colpi e Jules

e Jim, ma poi ci sono voluti altri vent’anni per riacciuffa­rlo. Ha continuato per tutti i Sessanta e i Settanta a fare come i suoi amati registi americani, un film all’anno, senza preoccupar­si di rincorrere il consenso. Ma il vero successo popolare è arrivato solo con L’ultimo metrò». Per cui è stato accusato di essere troppo commercial­e.

«Un paradosso. È un’opera che amo molto, insieme molto personale, scritta molto bene. Mentre gira ha un modello ma non è Hitchcock, non sono i film francesi su guerra e Resistenza: è Ernst Lubitsch. Crea un meccanismo narrativo altrettant­o perfetto. Gli attacchi più duri arrivano da chi aveva odiato la Novelle vague e anche dai vecchi compagni, prima di tutto Godard. Truffaut vince dieci premi Cèsar e Godard, che pure aveva diverse candidatur­e per Si salvi chi può (la vita), di fattura più sperimenta­le, nulla». Ma la rottura era precedente, no?

«Sì, dopo il 1968. Vanno insieme a Cannes per interrompe­re il festival. Godard spera che lo segua nell’impegno politico, nella fede maoista. François rifiuta. Truffaut appartiene a una sinistra moderata, diciamo. Ma non dimentichi­amo che è stato disertore e contestò la guerra d’Algeria. Ci voleva molto coraggio».

Che ruolo ha un’opera come «Il cinema secondo Hitchcock»?

«È il libro di cinema più conosciuto al mondo. E il più imitato, esce ogni settimana un tentativo di emulazione. Fallita».

Era un grande lettore: «Spero che film e libri si mescolino, che facciano l’amore», fu il suo auspicio.

«Era un autodidatt­a, non finì neppure il liceo. Oltre al critico André Bazin che gli ha fatto da padre e gli ha insegnato molto, sulla vita, il cinema, la scrittura, la sua sola università, i suoi professori, sono stati i libri».

Truffaut era uno spettatore onnivoro e vorace. Oggi per un cinefilo tutto sembra accessibil­e: i film si trovano su YouTube. La vostra cineteca ha anche tre sale: per conoscere i classici la visione adatta resta quella?

«Sono contempora­neamente integralis­ta e aperto. Certo, preferisco il cinema proiettato in una sala buia, con accanto sconosciut­i, e se possibile in pellicola 35 mm. Allo stesso tempo ho 54 anni e anch’io ho scoperto diversi film in tv. Psyco resta Psyco anche sul piccolo schermo. Il mio lavoro è portare persone da noi, organizzar­e retrospett­ive. Ma se un giovane scopre un autore sul suo pc mi va benissimo. All’epoca di Truffaut non esisteva che la sala e Parigi era la capitale della cinefilia, oggi è molto diverso. Alain Resnais diceva: ci sono solo due categorie di film, i film vivi e quelli morti. Per farli restare in vita serve che qualcuno li guardi. Ecco, finché la gente guarda i film, i film sono vivi. Ho fatto mia la convinzion­e di Truffaut: non si direbbe mai di un romanzo o di un quadro che è vecchio, perché dirlo di un film?».

Chiudiamo con l’eredità di Truffaut: chi è il regista che l’ha raccolta?

«Arnaud Desplechin. Senza dubbio. Ossessiona­to da Truffaut. Usa spesso lo stesso attore, Mathieu Amalric, come Truffaut con Jean-Pierre Léaud. In Esther

Kahn ha declinato Le due inglesi. L’ha preso come orizzonte: sperimenta­re, fare film molto personali, ma nello stesso tempo cercare di colpire il pubblico. È la lezione di Hitchcock. Ciò che caratteriz­za Truffaut è il suo essere un artista popolare. Arrivare a esserlo è difficile, da voi ci è riuscito Fellini».

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 ?? ?? Il direttore Frédéric Bonnaud (Avignone, 1967; qui sopra), critico e giornalist­a, dal 2015 è direttore della Cinémathèq­ue française. Ha diretto il mensile «Les Inrockupti­bles» Il regista François Truffaut (a sinistra; Archivio Corsera) era nato Parigi il 6 febbraio 1932 ed è scomparso il 21 ottobre 1984 a 52 anni. La sua è stata una passione assoluta per il cinema: a 16 anni apre un cineclub, quindi accanto al suo mentore André Bazin, reinventa la critica cinematogr­afica con i «Cahiers du cinéma». Da regista firma 21 film, da I 400 colpi dove affida per la prima volta a Jean-Pierre Léaud il suo alter ego Antoine Doinel, fino a Finalmente domenica
Il direttore Frédéric Bonnaud (Avignone, 1967; qui sopra), critico e giornalist­a, dal 2015 è direttore della Cinémathèq­ue française. Ha diretto il mensile «Les Inrockupti­bles» Il regista François Truffaut (a sinistra; Archivio Corsera) era nato Parigi il 6 febbraio 1932 ed è scomparso il 21 ottobre 1984 a 52 anni. La sua è stata una passione assoluta per il cinema: a 16 anni apre un cineclub, quindi accanto al suo mentore André Bazin, reinventa la critica cinematogr­afica con i «Cahiers du cinéma». Da regista firma 21 film, da I 400 colpi dove affida per la prima volta a Jean-Pierre Léaud il suo alter ego Antoine Doinel, fino a Finalmente domenica
 ?? ?? PAOLA MALANGA Il cinema di Truffaut BALDINI + CASTOLDI Pagine 709, € 25 In libreria dal 4 febbraio
Vita e opere Si tratta di una riedizione aggiornata del volume del 1996, con la prefazione di Paolo Mereghetti. Un ritratto ravvicinat­o, umano e cinematogr­afico, del giovane cinefilo che inaugurò la Nouvelle vague. Paola Malanga (Milano, 1966), critica e giornalist­a, è vicedirett­rice di Rai Cinema
PAOLA MALANGA Il cinema di Truffaut BALDINI + CASTOLDI Pagine 709, € 25 In libreria dal 4 febbraio Vita e opere Si tratta di una riedizione aggiornata del volume del 1996, con la prefazione di Paolo Mereghetti. Un ritratto ravvicinat­o, umano e cinematogr­afico, del giovane cinefilo che inaugurò la Nouvelle vague. Paola Malanga (Milano, 1966), critica e giornalist­a, è vicedirett­rice di Rai Cinema

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