Corriere della Sera - La Lettura
El pueblo è tornato
L’America Latina è tornata improvvisamente sotto i riflettori internazionali, a causa delle violente convulsioni che l’hanno attraversata dal Messico al Cile, provocate dai numerosi e spontanei estallidos (moti) popolari, scoppiati a partire dal 2017, che hanno riportato, come nel passato, sulle piazze ondate di scontenti, esclusi di ogni età, dominati dal rancore, per lo più giovani tra i venti e i trent’anni, carichi di rabbia, a cui la storia sembra negare più che alle generazioni precedenti un dignitoso futuro. I colti addetti ai lavori hanno elaborato sofisticate e affascinanti teorie interpretative, che hanno letto in queste proteste-rivolte, chi «un secondo atto della globalizzazione», chi «la prima rivoluzione dell’era globale», chi, infine, «l’insurrezione continentale di un neo sottoproletariato urbano», non più disposto ad accettare reiterate frustrazioni e a confidare con serena rassegnazione in un «perenne futuro migliore», che non arriverà mai.
In questa area del pianeta la forbice delle diseguaglianze ha raggiunto punte inaccettabili e la violenza, criminale, politica e conseguenza del narcotraffico, è ormai diventata un tratto identitario, costitutivo di quella cultura del miedo (paura), che ha cambiato la mentalità, i comportamenti e il vivere quotidiano dei latinoamericani. Un continente in balia da tempo di un cocktail di tante pandemie antiche e nuove — sanitarie, economiche, sociali — che la politica non è in grado di risolvere e spesso neanche di capire.
L’impatto del Covid-19 con più di 53.400.000 contagiati e 1.532.040 morti, al 31 dicembre 2021, rischia di trascinare il continente nella peggiore recessione della sua storia. Una persona su quattro in America Latina non sarà in grado di riprendere il lavoro che aveva prima. Per tanti latinoamericani stare a casa o andare al lavoro e ammalarsi è una scelta quotidiana. Il crollo del commercio, del turismo e delle rimesse dall’estero ha reso la regione estremamente vulnerabile, facendo schizzare il debito pubblico di molti Paesi a livelli vertiginosi. Secondo il World Food Program, nei prossimi mesi l’insicurezza alimentare colpirà milioni di latinoamericani, tanto che più di 45 milioni di persone finiranno in miseria, portando il numero dei poveri a 230 milioni, il 37,3 per cento della popolazione. Secondo le proiezioni pubblicate dalla Cepal, la Commissione economica dell’Onu per l’America Latina, il tasso di crescita nel 2022 è stimato al 2,1 per cento, rispetto al 6,2 del 2021. I fragili sistemi sanitari, già privi di strumenti e risorse, sono ormai al collasso, come le strutture educative. Secondo le stime dell’Unicef, a causa della totale o parziale chiusura delle scuole, più di 114 milioni di studenti hanno perso in media oltre 160 giorni di scuola, portando il livello di istruzione indietro di anni. L’America Latina rimane la regione più iniqua del pianeta, incapace da decenni di ridurre le profonde diseguaglianze, e sembra accettare con rassegnazione le disparità.
In questo scenario, dopo un decennio di relativa stabilità, il continente è entrato in un lungo periplo elettorale che pare lo stia portando all’inizio di una nuova fase di cambiamenti politici e sociali, inaugurando un ciclo di sinistra nella sua storia, tanto che la maggioranza dei commentatori internazionali parla del ritorno di una nuova marea rosada.
Bolivia, la rivincita socialista
Il primo Paese che si è recato alle urne, inaugurando questo giro a la izquierda, è stato la Bolivia. La vittoria di Luis Arce, alle elezioni boliviane del 18 ottobre 2020, con il 55,1 per cento dei voti, ha segnato il ritorno della sinistra al potere, a un anno dalla crisi politica e istituzionale nel Paese andino dove il presidente Evo Morales era stato costretto all’esilio, a seguito dell’accusa di brogli
elettorali, che aveva permesso all’opposizione conservatrice, con l’appoggio dei militari, di prendere il potere, portando alla presidenza Jeanine Áñez, un’ex presentatrice televisiva, seconda vicepresidente del Senato. Un’ultrà evangelica che si era sin da subito alienata le simpatie della popolazione indigena.
Il nuovo presidente, espressione del Movimiento al socialismo-Instrumento politico por la soberanía de los pueblos (Mas-Ipsp), fondato da Morales, nel giorno del suo insediamento si è detto convinto che la Bolivia «era all’inizio di una nuova fase della sua storia». Più tecnocrate che politico, ha studiato Economia, conseguendo un master presso l’Università britannica di Warwick ed è stato dal 2006 al 2017 ministro delle Finanze. Non ha un passato da militante, né viene dalla componente più autenticamente indigena del Mas, né tanto meno è espressione della tradizionale sinistra rivoluzionaria boliviana. Arce rappresenta un punto di equilibrio tra le complesse anime di questo movimento, a cui è stato affidato il compito di risanare l’economia, pacificare il Paese, preservandolo da una polarizzazione che rischiava di distruggerlo, ripensando un modello economico alternativo alla sola dipendenza dai ricavi delle materie prime. Il nuovo presidente è il volto di una nuova sinistra pragmatica, laica, non autoritaria e non subordinata ai rituali del mito della pachamama (la Madre Terra nella lingua quechua degli indigeni).
Perù, la matita al potere
Dopo la Bolivia è stata la volta del Perù, il Paese con il più alto tasso di mortalità per Covid-19, tormentato da decenni di scandali e arresti eccellenti. Dal 2000 addirittura sei presidenti sono stati deposti, a causa di reati legati alla corruzione. Nelle elezioni del 6 giugno 2021 Pedro Castillo ha ottenuto il 50,12 per cento al ballottaggio contro Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente Alberto. Questo maestro elementare, uscito dall’anonimato quattro anni fa per avere guidato uno sciopero degli insegnanti, si è presentato al voto come rappresentante di Perù Libre, un partito marxista-leninista, facendo dello slogan No más pobres en un país rico («Non più poveri in un Paese ricco») il cuore del suo programma. Durante la campagna elettorale si è fatto ritrarre spesso con una matita gigante, simbolo dell’insegnante e dell’importanza che intende dare all’istruzione.
Cattolico, sposato con una cristiana evangelica, esponente di una sinistra campesina, ancora prigioniera delle mitiche suggestioni degli anni Sessanta e conservatrice in materia dei diritti umani, contrario all’aborto, all’eutanasia e ai matrimoni gay, Castillo è espressione di una sinistra old style, allergica al mercato e alle dinamiche finanziarie, che vuole mettere fine agli arricchimenti illeciti delle multinazionali, rinegoziando i contratti con le grandi imprese, rafforzando, attraverso la riforma della Costituzione, il potere e i compiti dello Stato, privilegiando un’agricoltura andina e biologica, in grado di emancipare il Paese dalla sua dipendenza alimentare. Il suo sogno è un’«economia popolare di mercato», che non disdegni le nazionalizzazioni. La sua candidatura ha intercettato il malcontento degli emarginati, criticando una classe politica da decenni sorda e assente, insensibile alle profonde diseguaglianze sociali, e ha vinto le elezioni, nonostante si sia proclamato difensore del comunismo marxista, vantando legami con esponenti della sinistra latinoamericana, non propriamente credibili, come il venezuelano Nicolás Maduro.
I peruviani stanchi della corruzione hanno votato più per il cambiamento che per il comunismo, stufi di vivere in un Paese reso ingiusto dalle ricette di quel modello economico neoliberista che ha dato il benessere solo ad alcuni e reso poveri tanti. Castillo è giunto al potere proprio mentre il Perù stava subendo le conseguenze di una crisi democratica, sanitaria, economica e sociale. Pochi mesi dopo il suo insediamento, ha deciso di modificare l’orientamento politico della sua squadra di governo, varando un esecutivo più moderato, in modo da rispondere alle critiche secondo cui alcuni suoi ministri avrebbero simpatizzato con Sendero Luminoso, il gruppo ribelle di ispirazione maoista responsabile dell’uccisione di almeno trentamila persone tra il 1980 e il 2000. E il 2 febbraio ha nominato un nuovo primo ministro nella persona di Héctor Valer Pinto, legato all’Opus Dei. Una scelta per tranquillizzare i mercati, rafforzare la sua credibilità internazionale e ampliare l’area di consenso.
Cile, il vincitore pop
Ma il vero miracolo è avvenuto in Cile, dove con il 56 per cento di voti il candidato della sinistra Gabriel Boric, sostenuto da una coalizione Convergencia SocialApruebo Dignidad, ha vinto le elezioni contro José Antonio Kast, un nostalgico della dittatura militare di Augusto Pinochet. Quando prenderà in mano le redini dello Stato, l’11 marzo 2022, il nuovo leader cileno, oggi trentacinquenne, dal profilo scarmigliato e pop, diventerà il più giovane presidente della storia dell’America Latina.
Boric si è presentato con un programma fortemente ambientalista, puntando alla completa decarbonizzazione del Paese, criticando fortemente le politiche eco