Corriere della Sera - La Lettura
Povera scuola senza più prof
I dati degli ultimi anni fanno impressione: se consideriamo cento il totale dei posti disponibili, le assunzioni arrivano a coprire al massimo la metà delle cattedre. Le cause? Stipendi bassi, nessuna possibilità di carriera, minima considerazione sociale. Dunque? Il crollo delle nascite potrebbe favorire una riorganizzazione del sistema. Ma serve altro
Nashville (Tennessee), 18 maggio 1963. John Fitzgerald Kennedy parla alla Vanderbilt University del ruolo dell’educazione, della cultura e della scienza nella società americana: «I cinici e gli scettici moderni non vedono nulla di male nel pagare a coloro ai quali affidano le menti dei loro figli uno stipendio inferiore a quello pagato a coloro ai quali affidano la manutenzione del loro impianto idraulico». Più di mezzo secolo dopo, da un lato all’altro dell’Atlantico, gli insegnanti continuano a essere pagati meno di un idraulico. Solo che mentre prima la mezza giornata di lavoro e le lunghe ferie estive potevano bastare a compensare l’esiguità dei compensi, oggi che l’impegno richiesto si è fatto molto più gravoso e la considerazione sociale è scesa ai minimi storici, nessuno vuole più fare il prof.
In queste prime settimane del nuovo anno sono centinaia le scuole alla ricerca disperata di insegnanti. Al rientro dalle vacanze di Natale il preside di un liceo scientifico di Parma, Aluisi Tosolini, rimasto a corto di supplenti di matematica, ha lanciato un annuncio su Facebook per «laureate e laureati di buona volontà». «La scuola non è più un luogo di lavoro appetibile — ha spiegato — in particolare per le persone che si sono laureate in discipline tecniche, in matematica, ingegneria, fisica». A Bogliasco, provincia di Genova, la preside di una scuola elementare e media, Enrica Montobbio, ha messo un annuncio sul registro elettronico chiamando a raccolta i genitori: chiunque di voi abbia i requisiti, mi dia una mano a coprire i buchi fino a quando i titolari delle cattedre non torneranno.
In parte ci sono da coprire le assenze causate dall’emergenza sanitaria, ma altre sono supplenze fino alla fine dell’anno, posti che avrebbero dovuto essere assegnati dopo l’estate e invece sono rimasti scoperti. I vari elenchi dei precari della scuola sono vuoti. Graduatorie provinciali: vuote. Graduatorie di istituto e delle scuole «viciniori»: vuote. Mad, intese come le «messe a disposizione» di singoli supplenti fuori lista: non pervenute.
Questa fuga di massa dalla scuola è ben descritta dai numeri appena pubblicati dalla Cisl, che ha elaborato i dati ufficiali del ministero sulle assunzioni effettuate negli ultimi anni: 9 mila su 25 mila posti disponibili nel 2016; 31 mila su 51 mila nel 2017; 28 mila su 57 mila nel 2018; 22 mila su 53 mila nel 2019; 21 mila su 84 mila nel 2020 (record negativo: solo un posto su 4 andato a buon fine); 56 mila su 113 mila posti nel 2021. Ogni anno a luglio il ministero dell’Economia autorizza più del doppio delle assunzioni che si riescono a fare a settembre (forse anche perché ormai si sa che ne va a segno una su due?). Un paradosso: mentre negli altri settori del pubblico impiego si tratta fino allo sfinimento per ottenere qualche posto in più, nella scuola accade il contrario.
Che cosa sta succedendo? A fronte dell’onda lunga dei pensionamenti dei baby boomer — che nei prossimi dieci anni manderà a casa quasi la metà degli insegnanti — mancano nuove reclute. È vero che a bilanciare il problema potrebbe subentrare l’inverno demografico del nostro Paese, che ha già cominciato a svuotare le classi dei più piccoli, ma il governo ha promesso di sfruttare l’occasione per risolvere il problema del sovraffollamento delle aule, non per tagliare gli organici.
A rendere la professione docente sempre meno attraente agli occhi dei giovani vi sono diversi fattori. Sicuramente le magre prospettive economiche, ma anche la tortuosità e l’incertezza di un sistema di formazione e di reclutamento che continua a cambiare, prendendo forme che sembrano affidate al caso. Guardando alla questione economica, 1.350 euro netti al mese per un insegnante al primo incarico è poco, se confrontato alla media degli altri Paesi, ma non pochissimo. Il problema semmai è l’assenza di prospettive, perché una volta saliti in cattedra l’unico possibile scatto in avanti è legato all’anzianità. Ed è comunque molto modesto: dopo 35 anni di servizio non si arriva a 2 mila euro netti al mese. In passato si è discusso di irrobustire la busta paga aumentando l’orario di lavoro in classe in modo da tenere le scuole aperte anche al pomeriggio, ma poi non se n’è fatto nulla. Diversi tentativi di individuare un criterio per premiare i più meritevoli (su quali basi? scelti da chi?) si sono scontrati col fatto che il risultato finale rischiava di ingenerare ingiustizie maggiori del sistema attuale. Ecco perché oggi ci si orienta piuttosto a legare eventuali progressioni economiche alla formazione in servizio. Nel Pnrr sono stati stanziati 300 mila euro per creare un’agenzia governativa che dovrebbe garantire la qualità dei corsi di aggiornamento sotto la cui etichetta finora finiva un po’ di tutto, anche le settimane bianche.
Che questa vaga prospettiva di carriera possa bastare da sola a richiamare la meglio gioventù nostrana è tutto da vedere, soprattutto per quei laureati in materie Stem (scienze, tecnologie, ingegneria e matematica) che sono molto richiesti anche dalle aziende, dove hanno prospettive di guadagno e di promozione ben più allettanti.
Molto dipenderà anche dalla tabella di marcia dei concorsi: nonostante le semplificazioni previste dalla legge Brunetta, stentano a ripartire persino quelli già banditi. E poi bisognerebbe mettere ordine nel ginepraio dei percorsi di perfezionamento post-universitario che finora hanno più «sregolato» che regolato l’accesso all’insegnamento: Ssis, Tfa, Pas, Fit, Cfu. Alcuni più validi, altri decisamente scadenti, finora hanno riempito un vuoto legislativo dovuto al fatto che, mentre per le maestre d’asilo e delle elementari ormai da più di vent’anni esiste una laurea specifica (si chiama Scienze della formazione primaria e dura 5 anni), per insegnare alle medie e alle superiori un percorso ancora non c’è. Il mondo accademico vede come fumo negli occhi l’ipotesi di una vera laurea magistrale in cui, oltre a studiare analisi matematica o letteratura italiana, si impari come insegnarle. Temono che si tolga spazio alla preparazione specifica degli aspiranti insegnanti. Pesa anche, da parte dei professori universitari delle varie materie, il timore di perdere studenti, potere e, in prospettiva, posti.
Tenendo conto di tutte queste resistenze, il governo Draghi sembra avere accantonato l’idea di un percorso di formazione unitario, orientandosi piuttosto su un aggiustamento del sistema attuale che prevede un certo numero di crediti universitari in discipline psicopedagogiche e didattiche in aggiunta o in parallelo agli altri esami della laurea magistrale. Spiega la ministra dell’Università Maria Cristina Messa, che insieme al ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi dovrà riscrivere le norme per la formazione: «La capacità di insegnare non può essere lasciata all’iniziativa individuale, deve essere bene organizzata, presente nei corsi di laurea in senso generale. Il legame università-scuola deve ritrovare un rapporto positivo coinvolgendo varie discipline, non più solo le figure considerate classiche come il pedagogista, il sociologo, lo psicologo».
L’auspicio è che «il ruolo dell’insegnante possa recuperare quel prestigio e quella responsabilità che l’intera società dovrebbe riconoscere». Basterà, questa messa a punto, a fare il miracolo?