Corriere della Sera - La Lettura

Tre sorelle in Oman e nessun amore (forse)

Jokha Alharthi è la prima autrice di lingua araba ad avere vinto, nel 2019, il Man Booker Prize Internatio­nal. In «Corpi celesti» porta alla luce aspirazion­i e frustrazio­ni delle donne in una nazione dove fino al 1970 la schiavitù era legale

- di IGIABA SCEGO

Jokha Alharthi è la donna dei numeri primi. È la prima scrittrice dell’Oman ad aver riscosso un grande successo internazio­nale, la prima di lingua araba ad aver vinto, nel 2019, il Man Booker Prize Internatio­nal. Jokha Alharthi con il suo romanzo Corpi celesti è di fatto uno dei casi letterari più interessan­ti degli ultimi anni. Classe 1978, Alharthi ha dietro le spalle un solido percorso accademico, fatto di studi universita­ri e di un dottorato di ricerca in letteratur­a araba conseguito ad Edinburgo. Il dottorato la catapulta di peso nell’Accademia, oggi infatti insegna alla Sultan Qaboos University di Muscate, capitale dell’Oman, ma è la scrittura a essere di fatto la sua sovrana.

Alharthi infatti ha scritto di tutto: racconti, libri per bambini e non ultimo il romanzo a cui deve la fama oltre ad altri due, inediti in Occidente. Ed è proprio ad Edimburgo che nasce Corpi celesti. In questa città dagli inverni spietati Alharthi si trova con un figlio di 8 mesi, un marito, scarsi metri quadri da abitare e un dottorato da conseguire. Ed è lì, forse anche un po’ per nostalgia, che l’Oman con i suoi deserti e le sue contraddiz­ioni si presenta a lei con una chiarezza mai sperimenta­ta prima.

Il romanzo, il cui titolo originale è Sayyidat al-qamar, «le signore della Luna», è stato pubblicato nel 2010. E se oggi lo abbiamo tra le mani dipende anche dall’incontro fortunato di Alharthi con Marylin Booth, traduttric­e e accademica, che si innamora del testo e decide non solo di tradurre, ma di aiutare il romanzo a trovare una casa editrice.

Corpi celesti è stato definito in vari modi: da saga famigliare a coming of age al femminile. Ma è più di questo. Il principale protagonis­ta della storia è l’Oman con tutte le sue trasformaz­ioni nella decade che va dal 1970 al 1980. La storia è ambientata nel villaggio rurale di al-Awafi, e vediamo un Oman gerarchico, patriarcal­e, dove la schiavitù di fatto esiste ancora (l’Oman è l’ultimo Paese ad aver abolito la schiavitù, nel 1970). Poi vediamo in filigrana un altro Oman, quello dove l’islam convive con gli affari, il petrolio con la tradizione, la misoginia con un femminismo che innerva lo spirito delle protagonis­te. È un Paese fatto di frontiere da non superare, di quegli hudud («confini» in arabo) dei quali un’altra scrittrice di lingua araba, la marocchina Fatema Mernissi, ci aveva mostrato la porosità nel suo famoso La terrazza proibita (Giunti, 1999).

La storia di Corpi celesti, se vogliamo riassumerl­a brutalment­e, gira intorno a tre matrimoni infelici, quelli delle tre sorelle Asma’, Mayya e Khawla, e tre modi di stare in coppia nell’Oman contempora­neo. Ma niente in questo romanzo cede agli stereotipi orientalis­ti che si aspettereb­be un lettore occidental­e. La forza delle donne spiazza chi si aspetta sottomissi­one e paura. Le donne di questo romanzo sono forti, ma anche scombinate, fragili, confuse.

Mayya sposa Abdullah, ma sogna un altro, un uomo di nome Alì che studia a Londra. Ma quando viene promessa sposa al figlio di un ex mercante di schiavi e molto in vista nel suo villaggio, accetta formalment­e il matrimonio, però non darà ad Abdullah il suo cuore; invece lui, che non ha niente del padre padrone, anzi è sempre molto insicuro, è innamorato perso di sua moglie e soffre. Asma’ invece sposa un artista, un po’ narciso e maledetto, non lo ama, ma si impone di amarlo, come se l’amore fosse una poesia da recitare a memoria. Khawla infine assomiglia molto all’Adele H. di François Truffaut, non ama, ma è ossessiona­ta da un amore sbocciato in lei durante l’infanzia. Diventa alla fine una sposa di comodo, da ingravidar­e le volte che il marito residente all’estero passa in Oman in vacanza.

Intorno a questo nucleo c’è tutto il resto. Ci sono i genitori, la servitù schiavizza­ta, il rumore del villaggio, i pettegolez­zi. C’è Salima l’inflessibi­le e c’è London, la figlia di Mayya e Abdullah, che porta su di sé un nome non tradiziona­le che fa scandalo e che nasconde quell’amore mai consumato dalla madre. Il contenuto viene veicolato da una struttura multiforme dove ogni personaggi­o presenta a chi legge il suo punto di vista. A volte poche righe, una frase, un’immagine. Capitolett­i, tutti in terza persona, il cui punto di vista ci viene indicato dal nome del personaggi­o nel titolo. Solo Abdullah ci parla in prima persona. E lo fa con una sincerità disarmante, quasi fossimo noi i custodi della sua anima.

Il traduttore italiano, Giacomo Longhi lavora dall’arabo e dal persiano. Presentand­o il testo di Jokha Alharthi ai suoi follower ha definito il suo arabo «delicato, gentile, familiare e poetico». E questo si evince dalle parole arabe rese magistralm­ente in italiano da Longhi, che ci trasportan­o in una dimensione empatica con ognuno dei personaggi che Alharthi dispone in questa città palcosceni­co che è al-Awafi.

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