Corriere della Sera - La Lettura
Il mondo del Maxxi è gia l’oltremondo
Siamo all’anno zero. I musei sono a un bivio. Possono continuare a muoversi nel rispetto di paradigmi ancora novecenteschi, condannati a una funzione residuale, non troppo diversa da quella delle agenzie di viaggio. Oppure trasformarsi in luoghi dove sperimentazioni artistiche, tecnologie comunicative, performance teatrali e contesti ambientali interagiscono e si ricombinano. Per fare i conti con le conquiste del web e del digitale. Perché, come ha osservato Alessandro Baricco, «il campo da gioco si è fatto più difficile» e viviamo in un «mondo in cui c’è molto più traffico di una volta».
Per porsi in dialogo con la rivoluzione copernicana della tarda modernità, le istituzioni museali sono chiamate a ripensare la propria filosofia e le proprie strategie: imparare a leggere e a riscrivere con competenza i futuri che li attendono. Riallestire e valorizzare quel prodigioso giacimento che sono collezioni e depositi. E, insieme, potenziare il confronto con i social, con la realtà aumentata, con il virtuale, con le app e con il web. Sono, questi, alcuni tra i principali obiettivi della vita nova dei musei. I quali devono aprirsi ai territori dematerializzati e liquidi dell’«oltremondo».
Forse, l’unica realtà italiana che cerca di intercettare i cambiamenti è il Maxxi di Roma. Che, nel 2018, ha ospitato Low Form, una mostra dedicata alle visioni nell’età dell’intelligenza artificiale. Inoltre, allo scorso novembre risale l’inaugurazione, nella sede de L’Aquila, di un lavoro concepito per i nuovi spazi del metaverso del museo da Valentina Vetturi. Il capitolo ulteriore di questo progetto, curato da Bartolomeo Pietromarchi, si intitola What a Wonderful World (dal 3 maggio). Una narrazione sorprendente, che si snoda attraverso le produzioni di 16 artisti (tra gli altri, Liliana Moro, Jon Rafman, Micol Assaël, Ed Atkins, Rosa Barba, Rossella Biscotti, Simon Denny, Rä Di Marino, Franklin Evans, Lara Favaretto, Thomas Hirschhorn, Carsten Höller, Stephanie Saade, Tatiana Trouvé). Una galleria di opere inedite (acquisite nella collezione permanente del Maxxi), un evento sperimentale e in progress, costellato di prototipi performativi inventati da artisti che, abili nell’utilizzare i dispositivi digitali in modo originale e poetico, si confrontano con alcune urgenti questioni legate alle tecnologie (AI, blockchain, Nft, metaverso, machine learning, data collection).
Ecco dunque Höller, il quale, in Lisbon Dots, ordina 20 faretti in 4 colori che seguono i movimenti delle persone: il pubblico può montare e smontare questa combinatoria complessa. Ed ecco Rafman, moderno etnografo, impegnato a studiare la dimensione subconscia del deep web e il nesso tra tecnologia e coscienza: in Poor Magic mette in scena un universo inquietante, distopico, tecnoutopico e post-umano, percorso da avatar e da corpi animati in 3D. Ed ecco Atkins che, nel video The Worm (girato durante il lockdown), filma una telefonata con sua madre: della donna si sente solo la voce; l’artista, invece, grazie alla performance-capture technology, è trasformato in un avatar, sproporzionato, con gesti goffi e tic inconsci, che ascolta, borbotta e pone domande. Ed ecco, infine, Denny: in Blockchain Future States, mappa i miti e i sogni dei vincitori e dei vinti della geopolitica globale, dominata dall’uso del bitcoin. Voci diverse, tra surrealismo e iperrealismo. Per un verso, influenzati dalle intenzioni oniriche del gruppo di André Breton, questi autori si affidano al digitale, per modellare iconografie ibride, nelle quali si trasgrediscono i confini tra morale ed etica, tra umano e non-umano; e si comportano da registi di drammaturgie allucinate, prodotte da algoritmi automatici, tra entità biomorfe e robot. E ancora: svelano manipolazioni che alterano la vita biologica, sociale e politica. Dissolvono così il visibile nel finzionale: il reale si fa simulazione, la simulazione si fa realtà.
Per un altro verso, pur assecondando una sempre più diffusa inclinazione alla gamefication, questi artisti vogliono accrescere la consapevolezza etica e politica sull’apocalisse insediatasi nel nostro ecosistema. Pensano le proprie opere come microscopi avanzati: per mettere a fuoco alcuni tra i lati più inevidenti del tempo presente e per mostrare il funzionamento di quello che la filosofa Shoshana Zuboff ha definito il «capitalismo della sorveglianza», che si fonda sullo sfruttamento delle informazioni private.
Nell’infosfera il destino dei musei e quello degli artisti coincidono. Nel segno di un orizzonte comune. Salvaguardare, per citare ancora Baricco, l’identità dei «vecchi oltremondo», in grado di assicurare la trasmissione di saperi, conoscenze, memorie. E, insieme, aprirsi ai «nuovi oltremondo».