Corriere della Sera - La Lettura

Capìtutto:ancheoggi verrebbeuc­ciso

- Di STEFANIA ULIVI

ha dedicato un film all’intellettu­ale che prima e meglio capì la traiettori­a dell’Italia: «Non fu un delitto politico ma culturale. Pure a chi doveva difenderlo dava fastidio. È attuale: le sue borgate come la marginalit­à contempora­nea»

«La sua morte ha significat­o la perdita di un’intelligen­za formidabil­e, di un intellettu­ale capace di percepire i grandi mutamenti in corso alla fine del millennio e descriverl­i senza mai nasconders­i o essere accomodant­e. Oggi che tutte quelle profezie si sono avverate — il consumismo, l’omologazio­ne, la corruzione della classe dirigente, l’evaporazio­ne della cultura e lo smarriment­o della sua funzione formativa — Pasolini sembra solo un profeta di sventura. Ma non voleva esserlo: il suo era un grido di battaglia che avremmo potuto e dovuto raccoglier­e anziché trattare lui come un visionario jettatore. Dopo la sua morte se ne resero conto tutti, perfino i detrattori». Più che una passione. Un’ossessione quella di Marco Tullio Giordana per PPP, dichiarata fin dal suo esordio — Maledetti vi amerò, del 1980 – e perseguita 15 anni dopo con Pasolini, un delitto italiano. «Nel mio primo film sentivo un forte legame simbolico con l’altro orrendo delitto “politico” degli anni Settanta, quello di Aldo Moro. La loro fine, anche se maturata e eseguita in contesti completame­nte diversi, ha rappresent­ato per me l’abolizione della politica e della cultura, per come erano sempre state intese. Le brutali esecuzioni di Pasolini e Moro segnano l’inizio del nostro declino. Quindici anni dopo Maledetti vi amerò ho voluto affrontare proprio il delitto Pasolini non per farne un film di detection ma per rendere evidente quanto la sua sparizione ci avesse immiseriti».

All’epoca parlò con Bernardo Bertolucci, che pure sognava di girare qualcosa su Pasolini: cosa le disse?

«Bertolucci era stato suo assistente e prima ancora aveva desiderato essere poeta come suo padre Attilio e come l’ossuto selvatico Pasolini che fin da ragazzo aveva visto girare per casa. Un legame fortissimo, profondo, mai venuto meno. Era incantevol­e sentirlo raccontare di Accattone, dov’era stato suo aiuto-regista: una sorta di scoperta del cinema per entrambi, la meraviglia di apprendern­e il linguaggio fuori da qualsiasi accademia. Era l’estate del 1960 e l’Italia era infiammata dalle manifestaz­ioni contro il governo Tambroni. L’impression­e che ricevevo dalle parole di Bertolucci era di un periodo convulso ed entusiasta, dove tutto poteva succedere, tutto poteva cambiare».

Pasolini è stato regista in un arco di tempo limitato, circa 15 anni, eppure la sua influenza è profonda come mostrerà la retrospett­iva di Los Angeles.

«In questo breve periodo è stato almeno quattro-cinque registi diversi. C’è un primo Pasolini che affronta lo stesso mondo e la stessa antropolog­ia dei suoi romanzi: Accattone, Mamma Roma, La ricotta, in parte anche Uccellacci e uccellini. Sembrano provenire dallo stesso tipo di osservazio­ne, anzi compassion­e, della borgata romana e del sottoprole­tariato, la cui vita aveva condiviso quando era sbarcato a Roma senza un soldo. Una compassion­e con solide radici nel neorealism­o di cui rappresent­ò l’evoluzione forse più radicale. C’è poi un Pasolini attratto dal sacro, evidente nel Vangelo secondo Matteo, nei Sopralluog­hi in Palestina e perfino negli Appunti per un’Orestiade africana. C’è un Pasolini feroce critico anti-borghese in film come Teorema e Porcile e un altro Pasolini ancora, affascinat­o dalla vitalità primigenia delle culture mediorient­ali antiche, come Medea e, ancora prima, Edipo re o medievali come Decameron, Racconti di Canterbury o Il fiore delle Mille e una notte, la cosiddetta Trilogia della vita che poi, per rabbia verso la degenerazi­one consumisti­ca degli italiani, rinnegò amaramente».

C’è poi «Salò».

«Così conturbant­e e afflittivo da non saperlo ben maneggiare. Cos’è? Una denuncia disperata? Un grido di dolore? Non sono mai riuscito a vederlo senza rimanerne turbato. Forse inganna la sua ambientazi­one negli ultimi mesi della repubblica di Salò. Forse lo si capisce meglio se lo si guarda come un film di fantascien­za distopica, il vaticinio di una futura tirannia».

Qual è il suo lascito in campo cinematogr­afico?

«Molto fecondo, soprattutt­o in quest’ultimo decennio dove borgate e marginalit­à sono ritornate prepotente­mente in scena. Anche se si tratta di una marginalit­à postmodern­a, profondame­nte mischiata ai miti della società dello spettacolo al punto da risultarne corrotta. Questa non è certo responsabi­lità dei cineasti ma dei cambiament­i così estremi intervenut­i in tutte le società occidental­i. Forse l’influenza maggiore la vediamo nel cinema di quello che una volta si chiamava Terzo mondo: America Latina, Asia, Africa... il mondo dei proscritti che prima o poi si ribellerà».

Pasolini ha raccontato un’Italia che non c’è più, anche antropolog­icamente. Quei visi, quei corpi, quella lingua sono stati cancellati dalla television­e.

«Prima in letteratur­a e poi nel cinema Pasolini ha rivelato l’esistenza di una parte di Paese escluso dal boom economico, un mondo derelitto di cui avremmo saputo poco o niente se non gli avesse dato voce lui. Non solo nel geniale reportage Comizi d’amore ma perfino nei volti che sceglieva per i suoi film contravven­endo ai paradigmi della bellezza convenzion­ale, all’opposto della pubblicità e della tv».

Si può dire, a distanza di quasi 50 anni, che la sua fu una morte politica?

«Non la considero come l’esecuzione di un delitto su commission­e, non ne ho mai trovato le prove e non ho mai sottoscrit­to questa tesi. Fu un delitto di balordi sottoprole­tari (che comunque beneficiar­ono di protezioni e coperture) maturato nel clima di impunità di cui poteva godere chiunque avesse aggredito Pasolini, tanto odiosament­e lo dipingeva la stampa conservatr­ice e fascista, tanta la riprovazio­ne che suscitava nei benpensant­i, tanto il fastidio perfino in chi avrebbe dovuto difenderlo. In questo senso il delitto è forse più culturale che politico. Viene da chiedersi se quel clima, al di là del santino di Pasolini oggi ostentato come un Corpo Santo, sia cambiato o rimasto uguale. Forse le cose sono addirittur­a peggiorate: la violenza del populismo sovranista e l’odio per la diversità (mal contrastat­i dalla correttezz­a politica e dal conformism­o di sinistra) sono ancora più feroci di allora. Pasolini, venerato senza averlo letto, lo scannerebb­ero anche oggi».

Ormai icona pop, appunto. Come rendergli omaggio al di là del santino?

«L’unico modo per non “istituzion­alizzarlo” e renderlo inoffensiv­o è andare alla fonte. Leggere i suoi scritti: poesie, romanzi, saggi, articoli; vedere i suoi film, perfino le trasmissio­ni cui ha partecipat­o. Nessuna sua testimonia­nza, e sono tante, ha perso vigore».

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