Corriere della Sera - La Lettura

MA PER VIVERE CI VUOLE UN PO’ DI UMANITÀ

- di EDOARDO BONCINELLI

Siamo dunque arrivati a 8 miliardi! Ce lo aspettavam­o ma la notizia colpisce lo stesso. Soprattutt­o se consideria­mo che vent’anni fa il pianeta ospitava 6 miliardi di esseri umani e all’inizio dell’Ottocento un solo miliardo. Più o meno. Le dimensioni della popolazion­e di ogni specie vivente sono soggette a fluttuazio­ni che possono essere in genere spiegate e in parte previste. La fluttuazio­ne dipende da un certo numero di parametri biologici, tra i quali l’ampiezza della popolazion­e dei predatori e quella delle prede potenziali. Ma noi rappresent­iamo una specie a parte. Mentre all’inizio dei tempi, millenni fa, l’estensione della nostra popolazion­e seguiva più o meno le stesse regole, oggi non esiste quasi più niente che cospiri a ridurla, almeno al momento. Così cresce quasi senza ostacoli. Limitata solo da sé stessa e dalle richieste che noi poniamo all’ambiente. Siamo tanti e viviamo tanto. Fino a qualche tempo fa eravamo sbigottiti davanti alla vastità degli spazi — terra, acqua, cielo — che ci circondano.

In questi spazi ci perdevamo e ci sentivamo piccoli piccoli. Ora non più. Il palcosceni­co sembra essersi ristretto intorno agli attori e ai loro effetti, così a loro sembra quasi necessario «sgomitare» per non farsi soffocare e sommergere dagli altri noi. E non basta. Qualche tempo fa è stato anche notato che la massa totale delle cose prodotte dall’uomo aveva superato la massa di tutti gli esseri viventi esistenti sulla Terra.

Noi diciamo che dobbiamo preoccupar­ci per i danni che creiamo al nostro pianeta, ma ci dobbia

mo invece chiedere che fare perché questo continui a portarci e sopportarc­i. Si tratta di un insieme di affermazio­ni giuste ma che ci lasciano purtroppo piuttosto indifferen­ti fino a che non si viene al cospetto dei numeri. Approfitto quindi dei numeri per fare qualche osservazio­ne. Siamo esseri viventi che consumano tante risorse e tanta energia, ma anche esseri senzienti che vivono una loro vita commentand­o fra di loro e confrontan­do le cose del mondo dall’interno di solide fortezze non impossibil­i da mettere a repentagli­o.

Oltre all’aspetto materiale, quindi, tutt’altro che secondario, c’è anche l’aspetto psico-sociale al quale difficilme­nte sappiamo sottrarci. Vivere è fatto di sopravvive­re, ovviamente, ma anche del potersi muovere in uno spazio vitale, che non ci faccia sentire isolati ma che nemmeno ci opprima. O ci disorienti. Noi abbiamo bisogno dei nostri simili anche solo per respirare o per dormire. Tutti i rituali e le pantomime più o meno solenni che le varie popolazion­i si sono inventate nel tempo servono anche a tenerci immersi nell’umano, stabilendo e quasi garantendo una continuità temporale e transindiv­iduale. Non basta per noi

essere umani, occorre anche farsi umani, tenerci e confermarc­i tali, una cosa che è un po’ mancata durante il periodo della pandemia. Ci è mancato il pascolare fianco a fianco, trotterell­are qua e là e guardarsi come un’abitudine. Questa riposante condizione può essere minacciata da eventi negativi che incombono, dall’incontrare troppo di rado un nostro simile, come in alcune saghe medievali, ma anche dall’affollamen­to più o meno permanente dei nostri spazi vitali. È un equilibrio sottile, mantenuto per secoli in condizione subottimal­e per difetto e minacciato oggi dall’eccesso. Tutto questo si osserva bene per animali grandi e piccoli tenuti in cattività, ma opera anche in noi.

Normalment­e non ce ne accorgiamo ma lo notiamo e lo subiamo in condizioni particolar­i. Si direbbe quasi che i nostri sensi percepisca­no e segnalino più l’anomalo che l’ordinario. Ma forse è proprio questo il loro ruolo. Nessuno ci prega di vivere ma per vivere occorre rispettare certe indicazion­i. Che ci vengono da noi stessi e dal mondo e abbiamo imparato nel tempo che il mondo può benissimo vivere senza di noi, ma non noi senza di lui e senza un numero ragionevol­e di altri noi. Se questi sono troppo pochi o troppi cessano di essere noi e diventano «loro». E tutto si accartocci­a pericolosa­mente.

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