Corriere della Sera - La Lettura
Ritorno dopo 20 anni e racconto il mio Zorro, un «rifiuto» della società
Una straordinaria carriera al cinema (in sala e in televisione), l’attore sarà di nuovo in teatro dopo tanto tempo per proporre la storia di un clamoroso antieroe con il nome di un clamoroso eroe. «Un homeless, un uomo che ha perso tutto tranne la dignità. È una grande paura di questi tempi, la paura di perdere tutto, di finire ai margini, di vedere sbriciolata ogni certezza». Poi aggiunge: «È stato un dono di Margaret, mia moglie, scritto per “guarirmi” da un periodo di inquietudine, perché il palcoscenico può ancora guarire»
Al cinema il suo nome è legato a registi come Amelio, Bellocchio, Rosi, Scola, Tornatore, Virzì. Ma è il teatro ad averlo consegnato al grande schermo e alla televisione, dove la sua presenza è stata costante in film e fiction di primo piano degli ultimi trent’anni.
Sergio Castellitto, 68 anni, possiede una naturalezza di gesti ed espressioni, una finezza recitativa che, unite a una manifesta umanità, lo hanno reso uno degli attori più amati dagli italiani. «La Lettura» lo ha incontrato alla vigilia del suo ritorno, dopo vent’anni, in teatro: dall’11 al 13 febbraio sarà in scena al Comunale di Ferrara con Zorro. Un eremita
sul marciapiede, di Margaret Mazzantini, scrittrice e moglie di Castellitto, da lui diretto e interpretato. Lo spettacolo farà poi tappa a Biella (14 marzo), Savona (1517) e Rovereto (29-30). Cosa l’ha spinta a tornare sul palco?
«Il teatro offre un pensiero, una visione delle cose molto più interessante del cinema, dove tutto è già accaduto, dove l’attore non corre nessun rischio. Il teatro quel rischio ancora te lo consente, è quello che mi ha attratto. E poi mi mancava la presenza fisica del pubblico, il suo silenzio. Un silenzio che fa rumore». Chi è Zorro? «Zorro è un homeless, un uomo che vive in strada. Ci racconta la sua storia. Che potrebbe essere anche la nostra, perché prima di perdere tutte le ancore che lo tenevano ormeggiato alla vita “normale”, Zorro era uno di noi, come noi. C’è, nel monologo, anche un tentativo di indagare che cosa davvero significhi essere “normale”. Ogni vita ne possiede in sé un’altra. Un’altra possibilità. Che è, o non è stata, per destino, scelta, errore».
Un antieroe, un nome epico.
«Zorro è un personaggio dell’immaginario, rimanda all’idea di un cavaliere leale, di qualcuno che combatte, romanticamente, dalla “parte giusta”. Il mio Zorro è un uomo che ha perso tutto tranne la dignità. La sua è una parabola: da individuo inserito nella società a “rifiuto”. Accade di continuo: una delle grandi paure del nostro presente è perdere tutto. Vedere in un attimo sbriciolata ogni certezza. Non solo economica, anche di sé. “La dignità — dice — non è una tessera, non è un bancomat che te lo possono ritirare. La dignità non può togliertela nessuno».
Come si sente a tornare in scena?
«Felice. Emozionato. Questo monologo è stato un dono che Margaret scrisse per “guarirmi” da un periodo di inquietudine, perché il teatro può ancora guarirci. Farò poche date, per ovvie ragioni — basta un caso di positività e tutto salta — in provincia, dove il pubblico “aspetta” lo spettacolo, ha meno distrazioni culturali che in città».
Qual è l’ultima cosa che fa prima che il sipario si apra?
«Mi domando chi diavolo me lo ha fatto
fare (ride). L’ineluttabilità di ciò che deve ancora accadere è un’emozione formidabile. Una tensione — anzi, panico
— che è benzina per un attore. Non conta l’esperienza, i film interpretati o girati: quella paura, quel brivido di perdere tutto, lo provo ancora. Compensato dal piacere dell’applauso finale». Le sono capitate «serate no»?
«Altroché. Qualche volta è stato divertente, altre meno. Il teatro ogni sera è una scommessa. Oltre all’attore, conta il pubblico. Una sera godi di spettatori attenti, che si divertono, si emozionano, partecipano attraverso l’applauso. La sera dopo magari li incontri distratti, distaccati. L’“umore” del pubblico è un controcampo pazzesco».
Oggi bisogna fare i conti anche con le mascherine...
«È come se fossero tutti girati di spalle, un’immagine magrittiana... Margaret, che è stata attrice, e brava, prima di dedicarsi alla scrittura, sostiene di avere sempre recitato per lo spettatore più “disattento”, per catturarne l’attenzione. Anche io, quando preparo una messa in scena, cerco di non vedere il palco dal posto migliore. Mi metto in fondo alla platea accanto all’uscita, ultima poltrona a sinistra... Lo spettatore oggi è abituato — colpa della tv — a una fruizione on/off. Cominci a guardare, interrompi, ti fai un caffè, poi riprendi... Non c’è più nessuna ineluttabilità, nessuna “sacralità”. Una perdita enorme».