Corriere della Sera - La Lettura
Il Sahel in fiamme destabilizza l’Africa
Jihadismo e rivendicazioni etniche: la miscela esplosiva
Da dieci anni la regione africana del Sahel è al centro di una crisi internazionale che è andata via via estendendosi dal Mali al Burkina Faso al Niger fino al Nord della Nigeria. L’evento scatenante viene individuato nello scoppio del movimento di secessione nel Nord del Mali, dove il Movimento per la liberazione dell’Azawad lanciò nel 2012 un’offensiva contro il governo centrale con il progetto politico di fondare un nuovo Stato, l’Azawad appunto, che ambiva all’indipendenza delle popolazioni tuareg del Mali ed eventualmente delle regioni limitrofe: il Sud dell’Algeria, l’occidente del Niger e il Sudovest della Libia. In realtà la vera origine della crisi maliano-sahelina si può collocare nella guerra civile scoppiata in Libia, un anno prima, con la
rivolta e il conseguente intervento internazionale della Nato che portò alla caduta di Muammar Gheddafi senza di per sé risolvere il conflitto che ancora oggi lacera il Paese. Gran parte delle armi utilizzate per la secessione nel nord del Mali arrivarono dagli arsenali di Gheddafi, quando il collasso nel sistema di controllo dei confini e dei depositi di armi in Libia rese facile e remunerativo vendere all’estero almeno una parte dell’arsenale ricostituito durante gli anni Duemila, dopo la fine dell’embargo internazionale.
La messa in discussione dei confini statuali non costituisce una novità, al contrario rappresenta un tema ricorrente nella conflittualità a livello continentale a partire già dal cosiddetto anno di indipendenza dell’Africa, il 1960, quando la tentata secessione della regione mineraria del Katanga in Congo originò la prima crisi internazionale a sud del Sahara e il primo fallimento delle Nazioni Unite nell’arginarla. In effetti i confini coloniali imposti negli ultimi vent’anni dell’Ottocento dalle potenze colonizzatrici europee, sulla base delle reciproche esigenze e senza tenere in considerazione la storia e le società africane, costituirono dopo l’indipendenza un elemento che per sua natura prometteva di alimentare la conflittualità e le guerre in tutto il continente. Non fu certo un caso se con la nascita dell’Organizzazione per l’Unità africana nel 1963 il principio dell’intangibilità dei confini di epoca coloniale venne rigorosamente fissato e mantenuto nel tempo con sole due eccezioni: l’indipedenza dell’Eritrea nel 1993, che pure costituiva una conferma più che una smentita di quel principio, e poi l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011. È allora facile comprendere come il movimento secessionista nel Nord del Mali nel 2012 non riscosse i favori né dell’Unione africana né della più ampia comunità internazionale che si mossero a sostegno del governo centrale maliano.
A complicare il quadro contribuì la connotazione dichiaratamente islamista jihadista che il Movimento per la liberazione dell’Azawad assunse fin dalla sua fondazione nell’autunno del 2011. Il richiamo all’islam e alla guerra in suo nome fu in effetti invocato non solo dai secessionisti del Mali, ma di lì a poco da una serie di altri gruppi armati che si andarono formando rapidamente anche in Burkina Faso, Niger e infine Nigeria. Al di là dell’islam, tutti questi attori avevano in comune la contestazione del potere governativo nazionale e la rivendicazione di una maggiore centralità per regioni e comunità spesso marginalizzate o addirittura sfruttate all’interno dei rispettivi contesti statuali.
Nonostante tutti questi movimenti si siano spesso richiamati alle reti internazionali dell’islamismo e, quando ve ne fu la possibilità, abbiano aderito allo Stato islamico nato in Iraq nel 2014, le vere ragioni dell’esplosione