Corriere della Sera - La Lettura
La preistoria plurale
Decine di migliaia di anni fa gli umani vivevano in comunità molto diverse tra loro: alcune gerarchiche e bellicose, altre egualitarie e pacifiche. Tuttora certi popoli periferici oscillano stagionalmente tra forme organizzative diverse. Invece nelle società moderne i rapporti di potere appaiono cristallizzati. Forse i nostri antenati erano «animali politici» più di noi
C’era una volta un’umanità in cui convivevano fianco a fianco piccole bande itineranti e grandi (per l’epoca) raggruppamenti stanziali, simili a città; in cui convivevano culture che non lasciarono praticamene tracce materiali del loro passaggio e culture che eressero, ricorrendo a un’ampia manodopera, monumenti megalitici imperituri. C’era una volta un’umanità che eleggeva dei «capi», ma che sapeva anche prenderne le distanze e disobbedire ai loro ordini. C’era una volta un’umanità che si procurava le risorse alimentari per lo più nel territorio circostante, ma che aveva elaborato codici di condotta e regole di ospitalità che le permettevano di viaggiare in sicurezza anche a migliaia di chilometri di distanza. Un’umanità che aveva dato vita sia a società decisamente patriarcali sia a società in cui le donne detenevano poteri e saperi fondamentali.
C’era una volta, insomma, un’epoca che abbiamo chiamato «preistoria» perché in definitiva sappiamo pochissimo di come vivessero allora gli esseri umani, di cosa pensassero e che cosa si dicessero. Gli studi archeologici degli ultimi decenni, tuttavia, ci permettono di conoscere qualcosa in più e ci obbligano a prendere le distanze dai pregiudizi con cui abbiamo a lungo guardato ai nostri antenati.
La preistoria, almeno nelle ultime decine di migliaia di anni, è stata abitata da un homo pluralis, un essere che ha praticato una molteplicità di scelte e questa è una lezione importantissima per il presente, perché ci obbliga a chiederci come sia possibile che ci siamo cacciati in una situazione in cui le diseguaglianze e i rapporti di potere paiono «congelati», in cui lo spazio della vita politica è ridotto ai minimi termini. E se, al contrario di quanto amiamo pensare, noi contemporanei fossimo assai meno «animali politici» di quanto lo siano stati i nostri lontani antenati oppure i nostri contemporanei che vivono in società periferiche e (abbastanza) lontane dai centri statali del potere? Gli studiosi di preistoria e di antropologia culturale ci forniscono dunque esempi di società più libere, dinamiche e creative di quelle in cui attualmente viviamo?
Sono queste alcune domande provocatorie e sfide conoscitive che pone un libro ricchissimo di esempi e pieno di spunti che ci costringono a rivedere la nostra concezione etnocentrica del mondo. L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (Rizzoli) ha richiesto dieci anni di ricerche ed è il frutto di un lavoro condiviso tra David Graeber, l’antropologo americano prematuramente scomparso a Venezia nel 2020, e David Wengrow, archeologo specialista di Africa e Medio Oriente. Il libro si apre con una serie di considerazioni attorno a una domanda secondo gli autori mal posta: qual è l’origine della diseguaglianza?
Dalla fine del Settecento, le scienze sociali e di rimando l’opinione pubblica hanno oscillato tra la visione di Jean-Jacques Rousseau che identificava alle origini una condizione di generale e paradisiaca uguaglianza (un’ipotesi che lui stesso per altro presentò come una «finzione») e quella di Thomas Hobbes che, al contrario, evocava uno «stato di natura» di violenza e grama
€ sopravvivenza, che solo la civiltà e il progresso, con le loro inevitabili «catene», avrebbero consentito di superare. A parte il fatto che queste interpretazioni di Rousseau e di Hobbes sono alquanto caricaturali, siamo sicuri che le cose siano andate così? In realtà, dicono Graeber e Wengrow, più studiamo la preistoria e più studiamo i popoli indigeni che vivevano e vivono ai margini degli imperi che li hanno colonizzati, più ci accorgiamo della molteplicità di possibilità a cui l’umanità, fin da subito, diede vita e del modo in cui, attivamente, i nostri antenati e i nostri simili in altre parti di mondo sceglievano tra più opzioni possibili.
Il libro di Graeber e Wengrow si occupa soprattutto di quelle società che un tempo chiamavamo di «cacciatori e raccoglitori», espressione che fa discutere perché tutta al maschile e perché evoca una situazione di «spontaneità», un’epoca in cui gli esseri umani si sarebbero limitati ad allungare la mano per cogliere frutti già dati. Sappiamo invece che l’azione verso l’ambiente fu tutt’altro che passiva e per questo gli antropologi hanno proposto la definizione di «società acquisitive». La traduttrice italiana del libro, Roberta Zuppet, introduce un’innovazione, proponendo di tradurre l’inglese foragers con «foraggiatori», ovvero popoli che si procurano da vivere nell’ambiente circostante.
Torniamo agli esempi. Se prendiamo il caso delle società di «foraggiatori» che vivevano sulla costa occidentale americana prima della Conquista, ci imbattiamo per lo meno in due «blocchi» di società (quelle che un tempo si chiamavano aree culturali). Nel Nord-Ovest troviamo popoli ricchi e competitivi, che praticavano razzie e violenze, che avevano schiavi e celebravano grandiose feste, i potclath, in cui i capi rivaleggiavano per il prestigio. In California, invece, vivevano società estremamente libere ed egualitarie, resistenti al potere formalizzato e risolutamente contrarie alla schiavitù. Erano tutte società di «foraggiatori» che non avevano adottato l’agricoltura, sebbene le condizioni ambientali fossero ad essa favorevoli, ma erano estremamente differenti l’una dall’altra.
In diverse parti del mondo, fino a tempi recenti, molte società oscillavano stagionalmente tra forme di organizzazione comunitaria e individualista, tra momenti competitivi e di solidarietà, tra sistemi istituzionali di potere (e persino forze di polizia) e momenti di decisa anarchia. Le variazioni stagionali che Marcel Mauss studiò nelle società inuit sono un aspetto molto diffuso nella storia dell’umanità e nella stessa preistoria. E ancora, chiunque immagini una lunga «infanzia» dell’umano caratterizzata da piccole bande legate a un territorio specifico, leggendo L’alba di tutto, dovrà ricredersi: i ritrovamenti di corredi funebri ricchi di oggetti provenienti da lunghissime distanze nei monumenti megalitici dell’Europa dell’est, delle Americhe e nei complessi urbanistici e funerari del Medio Oriente, ci parlano della diffusa esistenza di «catene dell’ospitalità». Quando, agli inizi del secolo scorso, il fondatore dell’antropologia culturale Bronislaw Malinowski si imbatté, in Melanesia, in un commercio voluttuoso di beni «inutili» da un punto di vista pragmatico, ma altamente prestigiosi (il cosiddetto kula), praticato tra isolani che vivevano a migliaia di chilometri di distanza, che parlavano lingue molto diverse tra loro, non immaginava che reti di scambio simili esistessero un tempo in gran parte del pianeta.
Homo pluralis, dunque. L’alba di tutto distrugge molte nostre certezze. L’agricoltura e la domesticazione degli animali non produssero automaticamente diseguaglianze e schiavitù. Le società di grandi dimensioni non sono necessariamente più autoritarie e violente di quelle piccole. A chiuderci progressivamente nelle prigioni del progresso, non sono state le tecnologie o le costrizioni ambientali in sé, bensì strategie politiche come quelle che consentono di trasformare la ricchezza economica in potere politico (e viceversa), che tanto colpirono i primi osservatori indigeni delle nostre società. I nativi americani e di altri continenti, sostengono Graeber e Wengrow, erano colpiti dalla mancanza di libertà e dall’obbedienza cieca agli ordini che missionari, militari e coloni esprimevano nei loro comportamenti.
Abbiamo molti motivi per prendere sul serio i nostri simili che vivono in altre parti di mondo o sono vissuti in altre epoche. Tra gli altri quello di trovare tra loro, nelle loro storie, istituzioni e vite quotidiane, abbondante ispirazione per non cedere all’idea che violenze, diseguaglianze e costrizioni della vita contemporanea siano approdi inevitabili.