Corriere della Sera - La Lettura
Quant’è casual Nevo Il narratore sempre in jeans
Sta per approdare nelle librerie la nuova opera dell’autore israeliano, «Le vie dell’Eden». Una cosa si può dire subito: la sua prosa si conferma familiare, suadente, seduttiva; la sua voce ha una grazia insinuante. E un’altra cosa va detta: i libri ti danno l’idea, inequivocabile, che stia lavorando a un’unico romanzone extra-large.
Credo che non ci sia complimento più gradito per uno scrittore
Eccomi di nuovo qua, alle prese con un libro di Eshkol Nevo. Ogni volta che mi ritrovo a scrivere di lui giuro a me stesso che questa sarà l’ultima. Mi ripeto che dopo un po’ certi connubi diventano stucchevoli, indigesti, e vanno interrotti. Se non temessi il ridicolo, potrei liquidare quella nei suoi confronti come la tipica passione ispirata da una «lunga fedeltà».
Sono trascorsi un bel po’ di anni dalla prima volta che lo recensii. Era appena uscito La simmetria dei desideri e in Italia il nome di Nevo circolava soprattutto tra gli specialisti, relegato nel ghetto asfittico, e un tantino ripugnante, denominato «nuova narrativa israeliana». Da allora, credo (e temo) di non essermene perso uno.
Di solito, a questo scrupolo specifico se ne aggiunge un altro, di carattere generale, un tarlo che mi affligge tutte le volte in cui oso cimentarmi con scrittori dall’idioma esotico (israeliano, russo, giapponese che sia). Che senso ha, mi chiedo, valutare un libro vergato in una lingua di cui a stento conosco l’alfabeto? Non corro il rischio che i miei apprezzamenti — o il biasimo eventuale — siano dettati dal talento del traduttore, o dalle sue insipienze?
Con il tempo ho capito che è un rischio da correre. Quando leggo scrittori Nevo, infatti — dotati di un talento talmente naturale da autorizzare il sospetto che per loro scrivere e respirare sia la stessa cosa — questo timore viene subito meno.
Benché sia totalmente ateo, desolatamente sprovvisto di spiritualità, credo in una specie di anima dei romanzi che, per certi versi, trascende la lingua in cui sono scritti. Quest’anima si manifesta attraverso un clima, non so come altro definirlo. Che, a sua volta, s’incarna nella voce dello scrittore, una voce talmente peculiare e persuasiva da resistere all’oltraggio della traduzione.
Ecco, è della voce di Nevo che vorrei parlarvi. Sia che scriva in terza persona, sia che lo faccia in prima, la voce è sempre la stessa. Per alcuni tale monotonia può essere un difetto, per me è un pregio. Dirò di più: la sola qualità che richiedo a uno scrittore amato è che non si vergogni di sé stesso, che non si snaturi, che non finga di essere un altro, che mi serva il solito piatto: se possibile guarnito di nuovi imprevedibili prelibati alimenti.
Insomma, che voce ha Nevo?
Il solo aggettivo che mi viene in mente sembra più adatto a una rivista di moda che a un inserto culturale: casual.
Ecco, Nevo ha una voce casual. È come se la sua prosa non smettesse mai i jeans e le scarpe da ginnastica. Si rifiuta di mettere in difficoltà il lettore, non lo guarda mai dall’alto in basso: è familiare, suadente e seduttiva. Nei casi peggiori, al critico più esigente, può apparire incline a un certo sentimentalismo, se non addirittura a una deplorevole melensaggine (troppi figli amati, troppi amori assoluti). Ma ciò avviene raramente e fa parte del gioco. Di solito, la sua voce ha una grazia insinuante e allusiva.
A questo stato di cose contribuisce il carattere dei personaggi: si presentano a noi sotto spoglie normali, altrettanto casual, afflitti da rovelli nevrotici o passioni travolgenti. A prima vista ci somigliano. Appartengono a una media borghesia colta e progressista. Coltivano interessi pop. Il calcio, il cinema americome cano e la musica leggera forniscono la piattaforma comune indispensabile per socializzare: insomma, ciò che serve per farsi un amico o per rimorchiare una ragazza. Proprio come noi, sono perlopiù insoddisfatti. Da bravi israeliani istruiti hanno un rapporto molto speciale con la patria. Ne vanno fieri, poco ma sicuro; allo stesso tempo, però, ne sono talmente intossicati che spesso devono abbandonarla per intraprendere viaggi lunghi (hanno un debole per il Sud America e per il trekking). Anche qui, scarpe comode e zaini in spalla. Talvolta questa smania di cambiare aria assume proporzioni inaudite e autolesioniste, come nel caso degli eroi di Neuland ,il libro più ambizioso che Nevo abbia mai scritto. In quel caso l’intossicazione era talmente mefitica da degenerare nel desiderio di una nuova diaspora.
L’identikit appena sbozzato si attaglia sia agli eroi dei primi romanzi — Nostalgia, La simmetria dei desideri — che a quelli dei libri più recenti: Tre piani e L’ultima intervista. Il milieu messo in scena da Nevo è talmente coerente che è difficile considerare i suoi libri singolarmente. Ce ne sarà uno che ti piace di più, uno che ti piace di meno, uno felice, l’altro maldestro. Resta il fatto che letti così, tutti assieme, possono darti l’illusione che si tratti di un solo romanzone extra-large. E credo che
Il nuovo libro di Nevo (in uscita in questi giorni per Neri Pozza) s’intitola
Le vie dell’Eden. Il che non deve stupire: è dai tempi di Agnon che gli scrittori israeliani indulgono volentieri a citazioni bibliche o ad allusioni talmudiche. A una prima occhiata distratta lo si può considerare una raccolta di racconti, indipendenti l’uno dall’altro. Tre novelle di lunghezza media, un genere che Nevo frequenta spesso, con esiti felici. Salvo capire poi, strada facendo, che in un certo senso (un senso parecchio balzachiano) queste storie sono vagamente annodate l’una all’altra (come avveniva già in Tre piani). E non solo perché i destini dei personaggi a un certo punto si lambiscono fin quasi a intersecarsi, ma soprattutto perché il clima emotivo che li avvolge è pressapoco il medesimo. Si tratta di confessioni. Per essere più precisi, quel tipo di memorie difensive che l’imputato affida all’avvocato per fornire la propria versione dei fatti in merito a delitti di diversa natura e gravità: nel caso specifico, un omicidio, un’accusa di molestie sessuali o una sparizione (suicidio?). Come già avveniva ne L’ultima
intervista, questo setting apparentemente rigido consente ai narratori di divagare, denudarsi totalmente, dando conto di affetti, idiosincrasie, schermaglie, litigi, lutti, in un flusso avvolgente e ininterrotto. Sono tutti accomunati da una smania di dire una volta per tutte le verità. Ed è proprio questo a provocare nel lettore più attento e smaliziato un sussulto di incredulità. Quanto di quello che dicono è attendibile? Date le circostanze, come fidarsi fino in fondo di chi ha parecchio da nascondere e così tanto da perdere? Perché non dovrebbero stravolgere la verità a proprio vantaggio? Chi ci dice che l’eroe del primo racconto non sia implicato con un omicidio? Che il narratore del secondo non sia un molestatore? Che la moglie abbandonata del terzo non conosca le ragioni del marito? Ecco, se dovessi dire cosa mi colpisce ogni volta della narrativa di Nevo la metterei così: quanti altri scrittori contemporanei sono capaci di raccontare in modo altrettanto persuasivo l’ambiguità e la reticenza? I suoi eroi si comportano come se non avessero niente da nascondere, amano spiattellarti in faccia i loro difetti, ma basta prestare loro maggior attenzione, sorvolando sulla fuffa sentimentale e sulle mozioni di affetto, per rendersi conto di quanto crepata sia la loro coscienza e infingarda la loro anima.
Non credo che un’opera narrativa debba avere per forza un argomento, così come sono certo che non debba aver alcun messaggio specifico. Non so mai cosa rispondere a chi mi chiede: di cosa parla questo libro? Quale morale possiamo trarne? Eppure, se devo stare a un gioco che non mi piace, chiamato a identificare il tema che più emerge da quest’ultimo libro di Nevo, mi vien naturale soffermarmi su una questione che attraversa un po’ tutta la sua produzione: la guerra tra i sessi. A qualcuno potrà sembrare una contraddizione che uno scrittore così abile nel decifrare la simbiosi morale, intellettuale, erotica che può instaurarsi tra un uomo e una donna, si mostri così dubbioso sulla possibilità che a una siffatta sintonia non corrisponda una schietta comunicazione. Eppure, niente emerge meglio da queste pagine come il peso di un’incomprensione reciproca. Possono amarsi, desiderarsi, litigare e riappacificarsi quanto più loro aggrada, ma resta il fatto che gli uomini e le donne di Nevo sono condannati a non capirsi, e non capendosi a farsi parecchio male.