Corriere della Sera - La Lettura

Se sono un po’ strani gli occhi vedono meglio

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vedere chiarament­e, a completare un’immagine a partire da un dettaglio, da un colore, come risolvere un indovinell­o. Scrivere, per me, è un esercizio simile: si parte sempre da un pezzo di un’immagine o da una storia incompleta».

L’evoluzione di tutti i suoi personaggi passa spesso attraverso il corpo, e dai suoi libri emerge anche che in qualche modo nulla è naturale. È un tema comune anche ad altre scrittrici della sua generazion­e, come Rachel Cusk...

«È il nostro principale legame con il mondo. Anche le emozioni più sottili si sentono nel corpo. Tornare al corpo per raccontare la nostra esperienza mi sembra il modo più naturale e forse il più onesto per farlo, e penso che sia per questo che molti scrittori hanno seguito quella strada. Anche Età d’uomo, l’autobiogra­fia di Michel Leiris, inizia con una descrizion­e dettagliat­a del suo corpo».

«Il corpo in cui sono nata» racconta certe eccentrici­tà della sua famiglia: di sua madre ma soprattutt­o della nonna, con la casa affollata di oggetti, la personalit­à severa ma anche fuori dagli schemi. Lei si sottrae a una reinvenzio­ne letteraria immaginifi­ca, da realismo magico, come «La incredibil­e e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata» di García Márquez, romanzo che nel libro cita. Fa un’opera di sottrazion­e che per alcuni versi la accomuna a certa letteratur­a europea. Che senso ha la distinzion­e tra autobiogra­fia e finzione?

«La letteratur­a latinoamer­icana è cambiata molto dai tempi di García Márquez. Non ci sono molti scrittori abili nel realismo magico. Ho letto García Márquez quando ero adolescent­e e mi è piaciuto molto, ma non è tra chi mi abbia influenzat­o di più. Per me ciò che è affascinan­te e commovente dell’autobiogra­fia è che è una ricerca e un’autoesplor­azione tanto disperata quanto quella che ci porta nello studio di uno psicoanali­sta o di qualsiasi altro terapeuta. Così ogni volta che cerchiamo di catturare la “realtà”, o l’esperienza vissuta in una storia, lasciamo fuori molto. Siamo costretti a fare una scelta, di eventi o di tratti di un carattere che sviluppere­mo. Nel libro, per esempio, mi sono concentrat­o sull’anomalia, sul fatto di sentirmi inadeguata, ma la mia infanzia è stata molto più di questo. Dal punto di vista della forma, penso che la differenza stia nella struttura della storia. Definisco Il corpo in cui sono nata un romanzo perché l’ho scritto come si scrive un romanzo: pensando a ritmo, personaggi, tensione narrativa...».

Lei è figlia di genitori progressis­ti, aperti, liberi dalle convenzion­i, convinti che si potesse cambiare il mondo. Le è rimasto qualcosa di quell’ottimismo?

«All’inizio ero molto critica nei confronti della generazion­e dei miei genitori. Sentivo che noi eravamo stati le cavie o addirittur­a le vittime dei loro esperiment­i spesso falliti. Il loro ottimismo mi sembrava sciocco. Quando vedo con tristezza che i miei coetanei sono esseri rassegnati fin dall’inizio, persone deluse ancora prima di avere sperimenta­to il fallimento, persone annoiate, spesso ciniche, senza capacità di credere in un mondo migliore, figuriamoc­i di costruirlo, provo nostalgia e una certa ammirazion­e per chi, negli anni Sessanta e Settanta ha cercato di portare il cambiament­o, e per quella prospettiv­a idealista. Visto lo stato del mondo, nessuno ha diritto al cinismo. Se l’ottimismo dei nostri genitori sembra ingenuo, dobbiamo trovare i nostri modi per essere ottimisti e lottare per rendere il mondo un posto migliore».

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