Corriere della Sera - La Lettura
La tripla vita dell’uomo che Manzoni non fu
gioca con la storia, la lingua, i grandi classici ottocenteschi, con Milano e, soprattutto, con il destino del grande scrittore. Immaginando la sua sorte se, figlio del peccato di Giulia Beccaria, fosse stato dichiarato illegittimo...
Per il lettore è puro godimento, questo nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri (Poco a me stesso, Marsilio), anche se si tratta di un gioco molto raffinato, anzi forse proprio perché si tratta di un gioco talmente raffinato da far scomparire miracolosamente la sua raffinatezza nell’avvincente flusso affabulatorio. Alla fine, il risultato è ciò che conta. Un gioco di prestigio di quelli di cui è specialista il protagonista del libro, il barone francese di Cerclefleury, capitato a Milano nell’estate 1841, ospite del Palazzo Beccaria in via Brera, presso l’anziana nobildonna Giulia Beccaria che l’ha chiamato attratta dalla sua fama di esponente del «magnetismo animale». La vicenda mescola, come nella tradizione illustre del romanzo storico, personaggi reali con figure d’invenzione, ed è un omaggio, ironico, all’esperimento letterario di cui fu maestro il Manzoni. Va detto che Zaccuri è lo stesso scrittore che anni fa, con Il signor figlio, reinventò la figura di Leopardi.
Qui tutto sa di Manzoni, che c’è e non c’è, compare e scompare, aleggia ovunque. Sin dal titolo del romanzo, proveniente da un celebre sonetto in cui don Lisander traccia il proprio autoritratto o meglio il proprio non autoritratto, ovvero l’ammissione di non conoscersi e di aspettare che qualcun altro si occupi di definire i suoi caratteri: «Poco noto ad altrui, poco a me stesso:/ Gli uomini e gli anni mi diran chi sono». Ed è proprio l’identità mutata o incerta o falsa o trasformista di tanti personaggi il motivo profondo del libro.
Spingere l’immaginazione oltre ogni immaginazione, per cercare di vedere come si sarebbero sviluppate le vite nel caso in cui la storia avesse preso un altro corso. Il libro di Zaccuri parte da questa curiosità. Quel che sappiamo è che Giulia Beccaria fu costretta a sposare il nobile e anziano Pietro Manzoni per rimediare allo scandalo di una relazione segreta (e indesiderata dalle famiglie) con Giovanni Verri, il fratello minore di Pietro, fondatore della rivista «Il Caffè». Alessandro, nato il 7 marzo 1785, prese il cognome del
Manzoni, benché fosse figlio del peccato.
Ma, appunto, cosa sarebbe successo se, dichiarato illegittimo, fosse stato esposto alla ruota della chiesa di Santa Caterina come molti trovatelli della sua epoca? Non ne sarebbe venuto fuori uno scrittore ma un infelice assediato da voci e tormenti, magari chiamato Evaristo Tirinnanzi e adottato come giovane contabile dalla stessa marchesa Beccaria, la madre sua pentita di averlo abbandonato e però decisa a rimanere nascosta sotto le spoglie della ricca benefattrice disinteressata. Finché a sconvolgere tutto, dopo decenni di insignificante trantran da travet (ma dalla doppia vita e forse dalla tripla personalità), arriva nella casa della marchesa il misterioso Cerclefleury, sedicente (e seducente) seguace di Franz Anton Mesmer, medico, mistico e guaritore austriaco, che diede il nome a una nota terapia, il mesmerismo o magnetismo animale, promessa di eterna giovinezza. Con queste credenziali, il quasi settantenne Cerclefleury con l’aspetto di un venticinquenne si presenta alla marchesina Giulia, ormai sola dopo una vita irrequieta, la separazione da Pietro e la morte dell’ultimo amante, Carlo Imbonati. Lì dà prova delle sue abilità illusionistiche al cospetto di una piccola corte di nobildonne adoranti: «Una nuova giovinezza vi attende, amiche mie, una rinnovata primavera albeggia all’orizzonte».
Si diceva delle doppie e triple identità: ma non bisogna dimenticare che nel divertimento puro si ritrova un motivo che si potrebbe dire, banalmente, molto attuale: il perenne conflitto tra scienza e anti-scienza, l’inganno fascinoso o bieco che diventa suggestione individuale e credulità collettiva. L’effetto straniante è che questa attualità emerga da un tessuto d’altri tempi, un ritmo, un timbro, un linguaggio che rievocano il più classico stile-feuilleton ottocentesco, con formidabili colpi di scena ed effetti di enfasi nella descrizione dei personaggi. Come quello in cui ci si imbatte quando il barone francese si addentra nei bassifondi del Bottonuto spiando le mosse del Tirinnanzi: «La schiena gibbuta, la testa grossa, il naso schiacciato, la chioma disordinata, a far tutt’uno con i ciuffi della barba ingrigita, erano dettagli che accrescevano la somiglianza con una scimmia». È in quel covo violento e malfamato, il quartiere milanese delle puttane e del gioco d’azzardo, che Evaristo conduce la sua seconda vita clandestina e notturna, vittima della propria dabbenaggine e dei ricatti del terribile Faggini (evidente richiamo onomastico, tra le tante citazioni occulte, al Fagin dickensiano). La terza vita del Tirinnanzi è ancora più inquietante, poiché rimanda a un fantasma che lo accompagna da sempre suggerendogli frammenti, versi, passi manzoniani che il contabile, come in trance, trascrive su quaderni.
A rendere scoperto (e ancora più vertiginoso) l’artificio narrativo è pure il continuo appello (manzoniano) al lettore, che viene spesso coinvolto, avvertito e preavvertito degli sviluppi della vicenda e persino del linguaggio adottato: «Ciò sia detto per annunciare che da qui in poi i personaggi della nostra storia parleranno grosso modo un’unica lingua che ci sforzeremo di adeguare a un uso mediano, ma si confida non mediocre, dell’italiano del tempo». Il risultato è che il lettore, dalla prima all’ultima pagina, rimane irrimediabilmente avvinto.