Corriere della Sera - La Lettura
«Montalbano ero» Uscite di scena e ritorni
Il caso più clamoroso fu quello di ucciso dall’autore e resuscitato a furore di fan. confezionò l’addio postumo (per entrambi) del suo commissario.
ci ha costruito addirittura una trama: uno scrittore decide di eliminare Misery...
Lo disse bene Edgar Morin, nel saggio L’uomo e la morte, riedito nel 2021 da Erickson: «Non c’è in pratica alcun gruppo arcaico, per quanto “primitivo”, che abbandoni i suoi morti, o che li abbandoni senza riti». Cioè, nota Morin, il senso della sepoltura sta nella pietra tombale, cumulo di pietre che difende il corpo sepolto dagli animali e impedisce al morto di tornare. Il confronto con la morte, conflitto principale della vita umana, si rispecchia in letteratura: il romanzo si occupa spesso degli sforzi umani contro la Fine, ma può pure «gestire» la morte dei personaggi. E non lo fa mai senza riti speciali, sepolture solenni e (quasi sempre) definitive.
I «personaggi seriali» sono i protagonisti di cicli di romanzi o racconti, ad esempio i detective che in ogni storia affrontano un caso nuovo. Sherlock Holmes o Salvo Montalbano, per intendersi. Il problema però è proprio «ucciderli». Si citi l’esempio più famoso, quello di Sherlock Holmes, protagonista di quattro romanzi e una sessantina di racconti che sir Arthur Conan Doyle tentò di assassinare nella storia Il problema finale, del 1893, gettandolo insieme al cattivo Moriarty nelle cascate di Reichenbach, in Svizzera. Lo scrittore non era più interessato al detective, e aspirava alla fama in altri campi, nel genere fantastico e nell’indagine sullo spiritismo (nel 1926 pubblica Storia dello spiritismo). Non aveva però preventivato la reazione dei fan, tra i quali la famiglia reale: migliaia di lettori cancellarono i loro abbonamenti alla rivista «Strand Magazine» che ospitava le storie del detective e ostentarono fasce nere al braccio in segno di lutto. Controvoglia, Conan Doyle resuscitò il personaggio nel 1903, nel racconto Le avventure della casa vuota.
Perché i personaggi seriali sono così difficili da uccidere? I motivi psicologici sono molti, ma ce ne sono un paio anche narratologici. Il personaggio fisso, che abita una serie di storie potenzialmente infinita, lega il lettore con almeno due tecniche di suspense: intanto, la trama, il caso da risolvere, è di per sé motivo di curiosità, interesse, tensione; però accanto al «piccolo conflitto» del giorno, il personaggio seriale affronta anche un «grande conflitto» di fondo che attraversa più storie. Nel primo romanzo con Holmes, Uno studio in rosso, non solo il lettore si concentra sui particolari dell’omicidio per veleno di un tal
Drebber, con una cornice di indizi gustosi, ma soprattutto avvia la conoscenza della complicata personalità di Holmes e del rapporto con Watson: questo è il plot maggiore che lega il lettore, l’unico mistero che Conan Doyle non risolve mai, anzi rende sempre più avvincente, e cioè l’evoluzione di Holmes, il rapporto con il coinquilino Watson, i segreti che l’amicizia porta alla luce, gli amori, i vizi. Tanto che le riprese moderne del personaggio al cinema o in televisione puntano proprio sul grande plot, il legame complesso Holmes-Watson, con rinnovato, estremo successo.
La difficoltà di uccidere il personaggio è stata stigmatizzata da Stephen King, nel romanzo Misery (Sperling & Kupfer, 1988). Trama: uno scrittore che ha deciso di uccidere Misery, la protagonista della sua fortunatissima saga, viene rapito da una lettrice, Annie Wilkes, che lo sottopone a ogni genere di tortura per costringerlo a riportare Misery in vita in una nuova storia. Oltre al legame maniacale con l’immaginario, King fa balenare un altro ostacolo alla morte dei protagonisti nella cultura di massa di oggi: la morte infatti è stata a lungo esclusa dal quadro, come un tabù. Si pensi al successo planetario di supereroi «eterni» nel ciclo Marvel. Lo illustra bene un saggio di Ines Testoni, Il grande libro della morte (il Saggiatore, 2021): «Dal secondo dopoguerra, l’Occidente ha progressivamente costruito uno scenario capace di eclissare la presenza della morte come fatto concreto, per allestirne la rappresentazione (...)». La morte, cancellata come fatto, viene trasformata in «evento» luttuoso, catartico o sensazionalistico: non si può ancora dire se il Covid abbia modificato questo sentire, ma nei primi giorni del 2020, spiega la saggista, la malattia emersa in Cina era narrata più come un evento curioso e distante che come un allarme mortale per tutti.
La tendenza ad «allestire» una rappresentazione della morte accettabile per i lettori emerge in letteratura almeno in un caso: Harry Potter. Se da una parte J. K. Rowling in Harry Potter e i doni della morte (Salani, 2007) abbatte il tabù della «morte in un libro per ragazzi», dall’altro il limite oltremondano che fa affrontare al maghetto è più una prova iniziatica che una morte reale, e sancisce il «monomito», come viene definito il viaggio dell’eroe. E infatti comprende il «ritorno» tra i vivi. Più complessa è la fine di Salvo Montalbano, o meglio la sua dissoluzione: in Riccardino, scritto nel 2005, riscritto nel 2016 e pubblicato postumo da Sellerio nel 2020, Andrea Camilleri ha lungamente preparato un’uscita di scena per il suo commissario, e lo ha fatto trasformando il romanzo in un metaromanzo, con un espediente pirandelliano: mentre l’indagine del personaggio s’inceppa e rallenta, l’autore Camilleri si fa personaggio ed entra nel libro, telefonando a Montalbano, coinvolgendolo in discussioni sulla trama, e distogliendolo dalla trama del caso poliziesco in sé, che al commissario sfuggirà per sempre.
Va da sé che, visto che la «fine» del personaggio sulla carta non sparge sangue, ma inchiostro, lo scrittore in genere la sfrutta come elemento narrativo potente: il romanzo ottocentesco, meno legato all’io e all’autocoscienza, è spesso una storia di morte. Si pensi ad Anna Karenina di Tolstoj ea Madame Bovary di Flaubert, ma anche a La morte di Ivan Il’ic dello stesso Tolstoj, in cui il lettore osserva i protagonisti e le protagoniste correre verso la fine mentre gli scrittori chiudono a poco a poco tutte le vie di salvezza intorno a loro. Oppure, come accade in un capolavoro poco frequentato di Vladimir Nabokov, lo scrittore si mette a giocare con l’argomento meno scherzoso al mondo: ne La vera vita di Sebastian Knight del 1941 (ora Adelphi), la morte del protagonista è la prima certezza del lettore, appena apre il libro, e infatti il romanzo narra lo sforzo del fratello di Knight per ricostruire gli ultimi anni del defunto tra case abitate e donne amate. Ma la suggestione narrativa è così forte, mentre il ritmo accelera e le tracce del defunto si moltiplicano, che il lettore si illude di ritrovare Sebastian vivo, proprio all’ultimo istante. E lì Nabokov fa calare come una sorpresa drammatica una morte già annunciata.