Corriere della Sera - La Lettura

Soltanto «qui» e ora si sopravvive alle crisi

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«Come si sopravvive alle crisi? Me lo chiedo e cerco una risposta, nel mio lavoro, confrontan­domi con due elementi: la danza e l’oro. La danza evapora nel momento stesso in cui appare. L’oro e i gioielli antichi, quando li osservi nelle bacheche dei musei — che siano reperti della Grecia antica, dell’Egitto, del Messico — appaiono sempre nuovi». In bilico tra danza e oro, senso dell’effimero ed eternità, la coreografa e artista visiva newyorches­e di nascita greco-cipriota Maria Hassabi (1973; nel ritratto sotto di Thomas Poravas) approda al Binario 1 delle Ogr Torino, dal 24 febbraio al 27 marzo, con la sua prima mostra personale italiana, a cura di Samuele Piazza e Nicola Ricciardi, che la vede danzare insieme a cinque ballerini.

Intitolata Here (nella foto in alto), la live-installati­on è nata per il Palazzo della Secessione di Vienna e si modella ora sugli ampi spazi delle ex Officine che producono l’esposizion­e-performanc­e in collaboraz­ione con la Fondazione Onassis di Atene, aggiungend­o un tassello alla programmaz­ione che riflette sulla relazione tra arti performati­ve e museo, con ospiti come Tino Sehgal, Adam Linder, Pablo Bronstein.

Ha intitolato l’installazi­one «Here». L’idea di essere presenti «qui e ora» attraversa la storia della cultura, dall’«hic et nunc» degli antichi Romani al buddhismo. Lei dove si colloca?

«Cerco di essere qui, presente a me stessa. Here è un tentativo di combinare l’oro, elemento stabile ed eterno, con la danza che è un’arte effimera e fragile. Questo è il mio dialogo con il presente, qualsiasi cosa accada nel mondo, noi ci prendiamo cura di ciò che avviene ora, qui. Ed è molto difficile. Per gli esseri umani come per i danzatori. È più semplice vivere proiettati nel futuro o protetti dal passato, in balia della memoria. Nella mia pratica con i danzatori chiedo un forte impegno fisico per creare un contenitor­e che mantenga la danza nel presente».

Immobilità, vuoto, ralenti... È influenzat­a dal «butoh», la danza giapponese?

«No, anche se vedo la somiglianz­a nella lentezza del mio lavoro. Tanto che le persone spesso li paragonano. Ma c’è una grande differenza tra il butoh e la mia opera. Il primo sgorga dall’interiorit­à, il suo movimento e la sua iniziazion­e derivano dall’interno, mentre nel mio caso è l’opposto, la danza proviene dall’esterno, da un’immagine che è di per sé molto in superficie. Inoltre, il mio lavoro è molto più pop del butoh. Le immagini e i colori che uso sono molto contempora­nei, come i materiali, e possono ascriversi alla cultura pop. L’umore e il movimento che pervadono il mio lavoro lo stanno rendendo più formalista».

Come usa i danzatori? Il corpo è per lei scultura in movimento?

«Costruisco una coreografi­a precisa, incastonat­a nel disegno dello spazio: ci sono un quintetto e dei “soli”. C’è una relazione tra spazio, tempo e movimento di ogni individuo in rapporto con gli altri. Per la prima volta ho scelto la musica prima della coreografi­a, e questo mi ha aiutato a chiarire le idee».

Come coinvolger­à il pubblico?

«L’idea è che il pubblico entri nello spazio con noi danzatori che, per la maggior parte del tempo, siamo sulla piattaform­a. Gli spettatori sono intorno. Ci sono specchi che rendono viva la visione. Stiamo uscendo da un periodo molto difficile: la sfida è l’incertezza». (valeria crippa)

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