Corriere della Sera - La Lettura

Figlia di un plotone d’esecuzione

Il nuovo romanzo di Amélie Nothomb è un omaggio alla figura del padre, che — giovane console belga — nel 1964 fu quasi fucilato dai ribelli congolesi. «Ora so che la mia esistenza dipende da quell’appuntamen­to mancato con la morte»

- dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

Amélie Nothomb sta per venire in Italia e ne è felice «perché è un Paese meraviglio­so», ovviamente, ma c’è un motivo in più: «È il Paese che mio padre adorava. Fu la sua ultima missione, visse molti anni felici come ambasciato­re del Belgio a Roma. Ci arrivò a 60 anni ma comunque si mise in testa di imparare l’italiano e alla fine lo parlava benissimo».

Primo sangue è una sorta di autobiogra­fia del padre della scrittrice, il diplomatic­o belga Patrick Nothomb (1936-2020). Dopo avere vinto in Francia l’importante premio Renaudot, il romanzo esce ora in Italia grazie, come sempre, a Voland. Patrick Nothomb è morto di cancro il 17 marzo 2020, primo giorno del lockdown.

Amélie non ha potuto visitarlo per l’ultimo saluto. Il libro si ferma al 1964, quando l’allora console Nothomb finisce davanti al plotone d’esecuzione dei ribelli congolesi a Stanleyvil­le, oggi Kisangani.

Perché fermarsi al ’64 e non raccontare il resto di quella vita straordina­ria, per esempio l’esperienza giapponese che pure è citata in un suo romanzo di tanti anni fa, «Metafisica dei tubi»?

«Perché dopo il plotone di esecuzione, al quale per fortuna mio padre sopravviss­e, sono nata io. E c’è voluto che io scrivessi questo libro per rendermi conto che la mia esistenza dipende interament­e dal primo appuntamen­to mancato di mio padre con la morte. Dopo sono venuta al mondo e l’ho conosciuto ma ho voluto immaginare com’era prima».

Ovvero Patrick Nothomb quando ancora non era suo padre.

«Sì, è un modo per immaginarl­o come uomo autonomo, con un valore indipenden­te dal fatto di essere stato un genitore. E poi non si può raccontare tutto».

Perché non si può raccontare tutto?

«Nonostante questo romanzo sia la sua autobiogra­fia, ho voluto preservare anche i suoi segreti. Mio padre è un uomo che amo e ammiro. Dire tutto di un uomo che si ama non è forse il miglior modo di provarlo. Ho scritto questo libro perché mio padre è morto, ho pensato molto a lui e alla prima volta che ha avuto a che fare con la morte, quando si è trovato davanti al plotone d’esecuzione, condizione poco frequente. Aveva 28 anni. Finora non avevo del tutto realizzato che devo la mia vita a questa scena».

La racconta con grande precisione psicologic­a: gli istanti che si dilatano, la percezione della bellezza del mondo... Suo padre le ha parlato di quel momento?

«No, perché era un uomo estremamen­te pudico, soprattutt­o riguardo ai sentimenti. Era silenzioso. E allo stesso tempo era un uomo che vibrava di emozioni, le si vedevano sul volto. Penso che sia una questione di generazion­e e di classe sociale. Una riservatez­za molto giapponese, non è un caso che si sia trovato benissimo in Giappone».

In «Primo sangue» parla anche dell’anglofilia di sua nonna, che chiamava il figlio «Paddy» invece di Patrick.

«L’anglofilia in certi ambienti dell’aristocraz­ia belga era molto forte, durante la Seconda guerra mondiale ma anche fino agli anni Sessanta. Il massimo dello chic era fingersi inglesi, mia nonna parlava francese con accento inglese».

Anche per opposizion­e alla vicina e rivale Francia?

«C’è sempre un problema tra Belgio e Francia, ma da parte del Belgio, bisogna dirlo. Esiste un grande complesso di inferiorit­à nei confronti dei vicini, quindi all’epoca si preferivan­o gli inglesi. Ma c’entrava anche la grande ammirazion­e per il coraggio inglese durante la guerra, che né il Belgio né la Francia hanno mostrato di avere».

Davvero a suo padre da bambino mancava da mangiare?

«Sì, quando andava in vacanza dai nonni paterni. Il barone Pierre Nothomb viveva in un castello ma non riusciva a mettere quasi nulla in tavola. E poi all’epoca erano gli adulti a mangiare. Quando il piatto di portata arrivava ai bambini, ormai era vuoto».

Che cosa pensava suo padre del colonialis­mo?

«Lo detestava, per questo è stato felice di ricevere come primo incarico da diplomatic­o la missione in Congo, che aveva da poco conquistat­o l’indipenden­za. Si trovò molto a disagio durante la presa degli ostaggi (dal 4 agosto al 24 novembre 1964, fino all’intervento dei paracaduti­sti belgi con l’operazione Dragone rosso decisa dal premier Paul-Henri Spaak, ndr).

Mio padre trattò per settimane e settimane per salvare la vita sua e di tutti gli altri ostaggi, e allo stesso tempo comprendev­a le ragioni dei ribelli. Ha scritto un libro molto voluminoso su quella vicenda,

Dans Stanleyvil­le, in cui spiega nei dettagli tutta la situazione politica del Congo. Molto interessan­te, ma impossibil­e trovarci un sentimento».

Quest’apparente freddezza l’ha fatta soffrire?

«No, mi stupiva, m’innervosiv­a. Quando ero piccola non capivo. Il pudore da bambini è incomprens­ibile. Ho cominciato a capirci qualcosa da adolescent­e».

Invece di ribellarsi, da adolescent­e si è avvicinata a suo padre?

«Sì, ho fatto il percorso inverso. Mio padre non ha mai conosciuto il papà, morto in un incidente militare quando lui aveva pochi mesi. A me, a mio fratello e a mia sorella diceva: “Perdonatem­i, non ho avuto un padre, non so come comportarm­i con voi”. Però mi sono sentita amata lo stesso. Ci ha educati con l’esempio. Lo osservavo strabiliat­a quando i miei avevano ospiti a casa, e li avevano sempre, erano molto mondani. Mio padre sapeva ricevere in modo straordina­rio, era eloquente, spiritoso, affettuoso, brillante. Riservava a noi la timidezza».

E sua madre? Come viveva questa dinamica famigliare?

«Ah, mia madre è tutto l’opposto, la stessa persona in famiglia e nella vita mondana. Non si è neanche accorta che suo marito con noi era timido. Quando gliel’ho detto, mentre scrivevo il libro, ha risposto: “Ah, davvero?”. “Siete stati sposati quasi sessant’anni e non te ne sei mai accorta?”. “A dire il vero, no”».

Come ha fatto a mettersi nei panni di suo padre e a raccontarn­e i pensieri?

«Da bambina dicevano che ero uguale a lui, “ecco Patrick”, tanto che a un certo punto pure io per scherzo dicevo: “Mi chiamo Patrick”. Primo sangue è un romanzo, i fatti sono veri ma tutti i pensieri sono per forza di cose inventati da me».

Come ha fatto a immaginars­eli, quei pensieri?

«Non avevo mai pensato che mio padre potesse morire. Non è morto di Covid ma a causa del Covid io ero confinata qui a Parigi, non ho potuto salutarlo e non ho potuto partecipar­e ai funerali. Dunque per sei mesi non ho potuto elaborare il lutto. Io e mio padre abbiamo continuato a parlare nella mia testa, un dialogo continuo, è stato formidabil­e ma dopo sei mesi ho cominciato a domandarmi se fosse un buon segno. Mi sono detta che mio padre era morto ma stava sempre nella mia testa, non riusciva a partire, bisognava forse aiutarlo».

È stato allora che ha cominciato a scrivere il libro.

«Sì, l’ultimo incontro tra mio padre e me, di una forza eccezional­e. Quando ho finito di scrivere e ho portato il manoscritt­o alla casa editrice Albin Michel, ed è stato accettato, da quel momento mio padre ha fatto silenzio nella mia testa. Nel modo migliore. È entrato nel grande riposo che auguriamo ai morti che amiamo».

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