Corriere della Sera - La Lettura
Sono Einstein (oppure Hitler) È il metaverso
Opportunità e angosce di uno sviluppo tecnologico che può cambiare la nostra stessa natura umana. Ecco perché le grandi imprese (Facebook, Microsoft, Google...) investono miliardi. Mentre manca del tutto un dibattito sovranazionale sulle regole
Nei prossimi cinque anni le principali società tecnologiche — da Facebook (anzi Meta) a Microsoft, da Google a Nvidia e Qualcomm — e non conosciamo ancora che cosa sta facendo Apple, investiranno nel metaverso una cifra enorme, dell’ordine delle decine di miliardi di euro. Perché? A parlare per la prima volta di «metaverso» è stato un autore di fantascienza, Neal Stephenson. Nel romanzo Snow Crash, pubblicato nel 1992, lo descrive come un mondo digitale tridimensionale — un’esperienza di realtà virtuale condivisa — che permetteva agli utilizzatori di fuggire da un mondo fisico diventato poco interessante. In realtà, dopo due anni in cui la pandemia ci ha costretto a sostituire le nostre attività quotidiane con il telelavoro o la formazione a distanza, la prospettiva di passare tutta la nostra vita in un mondo digitale non sembra particolarmente stimolante. E come sottolineano molte ricerche, l’utilizzo continuativo di queste piattaforme genera un disagio fisico e psicologico che è comunemente chiamato Zoom Fatigue
(la fatica da Zoom).
Le scoperte più recenti delle neuroscienze hanno permesso di capire la principale causa di questo disagio (per approfondire si veda: https://bit.ly/ 3oURyEH). All’interno del nostro cervello c’è una serie di neuroni specifici — le
place cell ele border cell (chiamati anche «neuroni Gps» visto che funzionano in modo simile al Gps delle nostre auto) — che si attivano quando occupiamo una posizione nell’ambiente, permettendo di orientarci nello spazio. Recentemente i coniugi Moser, neuroscienziati norvegesi che hanno vinto nel 2014 il premio Nobel per la Medicina, hanno scoperto che questi neuroni giocano un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra memoria autobiografica: noi costruiamo la nostra identità attraverso il ricordo delle persone e degli eventi che sono avvenuti all’interno dei diversi luoghi che frequentiamo. Siamo lavoratori perché andiamo in azienda, siamo tifosi perché andiamo allo stadio, siamo studenti perché andiamo a scuola o in università, e così via. Cosa succede ai neuroni Gps quando invece di andare in ufficio o a scuola svolgiamo le nostre attività in una piattaforma di videoconferenza?
Come è stato da poco dimostrato, quando sperimentiamo luoghi multipli (siamo in una stanza, ma contemporaneamente stiamo in videoconferenza sullo schermo del computer), il nostro luogo è lo spazio in cui possiamo muoverci, non quello che stiamo vedendo. In sintesi, per il nostro cervello i sistemi di videoconferenza e le altre piattaforme di socialità digitale non sono luoghi, e quindi non collegano direttamente le esperienze che abbiamo al loro interno con la nostra memoria autobiografica. Per questo le piattaforme di videoconferenza possono essere definite «non luoghi» in continuità con la definizione dell’antropologo Marc Augé: spazi di transito, focalizzati solo sul presente, in cui è molto più difficile costruire un’identità condivisa.
Le giornate passate nei «non luoghi» sono caratterizzate da un eterno presente digitale e non lasciano segni. Per questo sembrano tutte uguali e, arrivati alla sera, ci lasciano vuoti e senza fuoco. Se questi sono gli effetti di vivere nel metaverso, perché dovremmo entrarci? In realtà, sia la realtà virtuale che la realtà aumentata — le due tecnologie che sono il cuore del metaverso — sono invece in grado di attivare i neuroni Gps e rendere il soggetto presente nei luoghi digitali.
Esiste però una differenza sostanziale tra il metaverso descritto da Neal Stephenson e quello a cui stanno lavorando le grandi aziende tecnologiche. La caratteristica principale del nuovo metaverso è la «realtà mista» (mixed reality), la fusione tra il mondo virtuale e quello fisico. In pratica, nella realtà mista quello che facciamo nel mondo fisico influenza l’esperienza nel mondo virtuale e viceversa. A fare dialogare i due mondi sono i «gemelli digitali» (digital twins), cloni virtuali degli oggetti reali, collegati direttamente con la loro controparte fisica. Grazie a essi, indossando tutto il giorno un paio di occhiali ibridi (Virtual Reality/ Augmented Reality), potremo vedere e interagire nel nostro ambiente fisico con persone e oggetti digitali. Oppure, vedere e interagire con persone e oggetti reali all’interno di ambienti virtuali. Per esempio, se mi muovo nel mondo reale, anche il mio avatar virtuale si muove. Oppure, se l’avatar viene toccato nel mondo digitale, un feedback tattile viene fornito al corpo fisico. Infine, se in realtà virtuale faccio partire la lavatrice digitale, anche quella fisica presente nel mio appartamento inizia a funzionare.
Anche se a prima vista può sembrare di leggere un romanzo di fantascienza, la maggior parte delle tecnologie necessarie è già disponibile o in fase di sviluppo avanzato. Per farsi un’idea della situazione basta guardare il video (https:// bit.ly/3gTpLzT) realizzato a fine 2021 in cui Mark Zuckerberg presenta i diversi strumenti su cui Meta lavora: occhiali immersivi ibridi che consentono sia la realtà virtuale che la realtà aumentata, avatar fotorealistici che riproducono il corpo reale del soggetto, sensori indossabili in grado di misurare i movimenti dell’utente... Queste tecnologie consentono al metaverso di farci sperimentare il senso di «presenza», la sensazione di «esserci», di essere davvero all’interno di un luogo.
Come ho avuto modo di scrivere in passato, a rendere possibile il senso di presenza è una delle caratteristiche meno evidenti del metaverso: il metaverso funziona come la nostra mente. A lungo le scienze cognitive hanno descritto il cervello come un computer in grado di elaborare e descrivere le informazioni ricevute. Nonostante questa visione continui a influenzare il pensiero comune, oggi le neuroscienze paragonano il nostro cervello a un simulatore, un sistema di realtà virtuale mentale, che attraverso un lungo processo evolutivo ha imparato ad anticipare gli stimoli sensoriali prima che questi siano effettivamente percepiti.
Per comprendere questo concetto partiamo da un esempio. Quando il nostro cervello ha un’intenzione (voglio prendere una penna), cerca di predire le percezioni che si aspetta di ricevere (vedrò la mano ridurre la distanza dalla penna fino a raggiungerla). Queste previsioni per