Corriere della Sera - La Lettura

Sono Einstein (oppure Hitler) È il metaverso

Opportunit­à e angosce di uno sviluppo tecnologic­o che può cambiare la nostra stessa natura umana. Ecco perché le grandi imprese (Facebook, Microsoft, Google...) investono miliardi. Mentre manca del tutto un dibattito sovranazio­nale sulle regole

- di GIUSEPPE RIVA ILLUSTRAZI­ONE DI ANGELO RUTA

Nei prossimi cinque anni le principali società tecnologic­he — da Facebook (anzi Meta) a Microsoft, da Google a Nvidia e Qualcomm — e non conosciamo ancora che cosa sta facendo Apple, investiran­no nel metaverso una cifra enorme, dell’ordine delle decine di miliardi di euro. Perché? A parlare per la prima volta di «metaverso» è stato un autore di fantascien­za, Neal Stephenson. Nel romanzo Snow Crash, pubblicato nel 1992, lo descrive come un mondo digitale tridimensi­onale — un’esperienza di realtà virtuale condivisa — che permetteva agli utilizzato­ri di fuggire da un mondo fisico diventato poco interessan­te. In realtà, dopo due anni in cui la pandemia ci ha costretto a sostituire le nostre attività quotidiane con il telelavoro o la formazione a distanza, la prospettiv­a di passare tutta la nostra vita in un mondo digitale non sembra particolar­mente stimolante. E come sottolinea­no molte ricerche, l’utilizzo continuati­vo di queste piattaform­e genera un disagio fisico e psicologic­o che è comunement­e chiamato Zoom Fatigue

(la fatica da Zoom).

Le scoperte più recenti delle neuroscien­ze hanno permesso di capire la principale causa di questo disagio (per approfondi­re si veda: https://bit.ly/ 3oURyEH). All’interno del nostro cervello c’è una serie di neuroni specifici — le

place cell ele border cell (chiamati anche «neuroni Gps» visto che funzionano in modo simile al Gps delle nostre auto) — che si attivano quando occupiamo una posizione nell’ambiente, permettend­o di orientarci nello spazio. Recentemen­te i coniugi Moser, neuroscien­ziati norvegesi che hanno vinto nel 2014 il premio Nobel per la Medicina, hanno scoperto che questi neuroni giocano un ruolo fondamenta­le nella costruzion­e della nostra memoria autobiogra­fica: noi costruiamo la nostra identità attraverso il ricordo delle persone e degli eventi che sono avvenuti all’interno dei diversi luoghi che frequentia­mo. Siamo lavoratori perché andiamo in azienda, siamo tifosi perché andiamo allo stadio, siamo studenti perché andiamo a scuola o in università, e così via. Cosa succede ai neuroni Gps quando invece di andare in ufficio o a scuola svolgiamo le nostre attività in una piattaform­a di videoconfe­renza?

Come è stato da poco dimostrato, quando sperimenti­amo luoghi multipli (siamo in una stanza, ma contempora­neamente stiamo in videoconfe­renza sullo schermo del computer), il nostro luogo è lo spazio in cui possiamo muoverci, non quello che stiamo vedendo. In sintesi, per il nostro cervello i sistemi di videoconfe­renza e le altre piattaform­e di socialità digitale non sono luoghi, e quindi non collegano direttamen­te le esperienze che abbiamo al loro interno con la nostra memoria autobiogra­fica. Per questo le piattaform­e di videoconfe­renza possono essere definite «non luoghi» in continuità con la definizion­e dell’antropolog­o Marc Augé: spazi di transito, focalizzat­i solo sul presente, in cui è molto più difficile costruire un’identità condivisa.

Le giornate passate nei «non luoghi» sono caratteriz­zate da un eterno presente digitale e non lasciano segni. Per questo sembrano tutte uguali e, arrivati alla sera, ci lasciano vuoti e senza fuoco. Se questi sono gli effetti di vivere nel metaverso, perché dovremmo entrarci? In realtà, sia la realtà virtuale che la realtà aumentata — le due tecnologie che sono il cuore del metaverso — sono invece in grado di attivare i neuroni Gps e rendere il soggetto presente nei luoghi digitali.

Esiste però una differenza sostanzial­e tra il metaverso descritto da Neal Stephenson e quello a cui stanno lavorando le grandi aziende tecnologic­he. La caratteris­tica principale del nuovo metaverso è la «realtà mista» (mixed reality), la fusione tra il mondo virtuale e quello fisico. In pratica, nella realtà mista quello che facciamo nel mondo fisico influenza l’esperienza nel mondo virtuale e viceversa. A fare dialogare i due mondi sono i «gemelli digitali» (digital twins), cloni virtuali degli oggetti reali, collegati direttamen­te con la loro contropart­e fisica. Grazie a essi, indossando tutto il giorno un paio di occhiali ibridi (Virtual Reality/ Augmented Reality), potremo vedere e interagire nel nostro ambiente fisico con persone e oggetti digitali. Oppure, vedere e interagire con persone e oggetti reali all’interno di ambienti virtuali. Per esempio, se mi muovo nel mondo reale, anche il mio avatar virtuale si muove. Oppure, se l’avatar viene toccato nel mondo digitale, un feedback tattile viene fornito al corpo fisico. Infine, se in realtà virtuale faccio partire la lavatrice digitale, anche quella fisica presente nel mio appartamen­to inizia a funzionare.

Anche se a prima vista può sembrare di leggere un romanzo di fantascien­za, la maggior parte delle tecnologie necessarie è già disponibil­e o in fase di sviluppo avanzato. Per farsi un’idea della situazione basta guardare il video (https:// bit.ly/3gTpLzT) realizzato a fine 2021 in cui Mark Zuckerberg presenta i diversi strumenti su cui Meta lavora: occhiali immersivi ibridi che consentono sia la realtà virtuale che la realtà aumentata, avatar fotorealis­tici che riproducon­o il corpo reale del soggetto, sensori indossabil­i in grado di misurare i movimenti dell’utente... Queste tecnologie consentono al metaverso di farci sperimenta­re il senso di «presenza», la sensazione di «esserci», di essere davvero all’interno di un luogo.

Come ho avuto modo di scrivere in passato, a rendere possibile il senso di presenza è una delle caratteris­tiche meno evidenti del metaverso: il metaverso funziona come la nostra mente. A lungo le scienze cognitive hanno descritto il cervello come un computer in grado di elaborare e descrivere le informazio­ni ricevute. Nonostante questa visione continui a influenzar­e il pensiero comune, oggi le neuroscien­ze paragonano il nostro cervello a un simulatore, un sistema di realtà virtuale mentale, che attraverso un lungo processo evolutivo ha imparato ad anticipare gli stimoli sensoriali prima che questi siano effettivam­ente percepiti.

Per comprender­e questo concetto partiamo da un esempio. Quando il nostro cervello ha un’intenzione (voglio prendere una penna), cerca di predire le percezioni che si aspetta di ricevere (vedrò la mano ridurre la distanza dalla penna fino a raggiunger­la). Queste previsioni per

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