Corriere della Sera - La Lettura
Il poeta che ispirò i poeti (ma Montale...)
Otto versi scritti da Giorgio Caproni sotto l’insegna Dopo aver rifiutato un pubblico commento sulla morte di Pier Paolo Pasolini rimangono come un memorabile esempio di ritegno e di rispetto per l’amico: «Caro Pier Paolo./ Il bene che ci volevamo/ — lo sai — era puro./ E puro il mio dolore./ Non voglio pubblicizzarlo./ Non voglio, per farmi bello,/ fregiarmi della tua morte/ come d’un fiore all’occhiello». La breve composizione, del 5 novembre ’76, viene segnalata giustamente da Roberto Galaverni come un «avvertimento precoce (…) della formazione di un mito pasoliniano indiscriminato e senza pudore», insomma di un «abuso di Pasolini». Di questo mito abbiamo prova anche nell’antologia P.P.P. Poesie per Pasolini (curata dallo stesso Galaverni per lo Specchio Mondadori), che riunisce un’ottantina di testi poetici dedicati a Pasolini dai nati negli anni Dieci fino agli attuali settantenni e sessantenni (Lamarque, Conte, Buffoni, D’Elia, Magrelli, Pusterla, Arminio) e al quarantenne Marchesini. Con una certezza: «Nessun poeta — scrive Galaverni — ha mosso le parole dei nostri poeti, nessuno li ha spinti a dire, e anzi, a dire direttamente di un altro, quanto Pier Paolo Pasolini».
Fanno impressione la varietà e l’importanza degli interlocutori, anche se l’ordine alfabetico del volume sacrifica al criterio tassonomico la profondità storica. Ci sono quasi tutti i poeti maggiori del secolo scorso. Non un verso di Sereni, che ha scritto su Pasolini in sede critica, segnalando quanto fosse clamoroso in lui il bisogno «di altro che della letteratura». Il fatto evidente è che Pasolini non è stato «solo» un poeta e con la sua esorbitanza si spiega l’eccezionalità del tributo pro e contro. Un tributo in gran parte post mortem, suggerito dallo choc dell’assassinio, ma non soltanto: una ventina di poesie, tra quelle presenti nell’antologia, gli sono state dedicate in vita, per gratitudine, per devozione, per amicizia, per polemica.
Chi se n’era dimenticato, avrà modo di rinfrescarsi la memoria su una velenosa «tenzone» ingaggiata da Montale contro il recensore critico di Satura, la raccolta del 1971 che segnò la svolta del futuro Nobel verso registri più ironici, colloquiali, sensibili al presente. Pasolini aveva scritto che «per sfiducia nella storia e nella poesia, il vecchio Montale ha gettato la maschera — quella sua maschera meravigliosa e inimitabile — e ha fatto lo scherzo di mostrarsi com’è»: nell’elogio apparente lanciava una frecciata micidiale, definendo quel libro il risultato di un’«operazione di moda che viene chiamata trionfalmente dissacrazione (e, nella fattispecie, auto-dissacrazione)». In sostanza bollava quella raccolta come «pamphlet antimarxista» in cui il poeta satirico rimaneva abbarbicato al potere borghese.
Già Montale aveva bollato come «un’ultima impostura» gli «ululi di tromba» di Pasolini e della sua «banda» in una poesia dal titolo emblematico, Dove comincia la carità. Ma adesso rincara la dose con i versi di Lettera a Malvolio, un testo che Galaverni definisce un «autentico manifesto di posizionamento etico-storico e insieme di poetica». A Pasolini vengono attribuiti il nome e i caratteri di Malvolio, il personaggio di Shakespeare, maggiordomo puritano e ipocrita de La dodicesima notte, al quale si rivolge senza sconti: «Tu il male lo condanni in altri modi,/ p. es. sguazzandoci». E ancora: «Con quale agilità rimescolavi/ materialismo storico e pauperipresentò?