Corriere della Sera - La Lettura
PPP, la vita e la morte di un’Italia
Lo scrittore Carlo Lucarelli ha ripreso in mano un suo libro del 2015 dedicato all’intellettuale nato cent’anni fa e lo ha trasformato in un recital che ha debuttato in Sardegna. «Racconto un affare criminale e un padre della mia generazione»
Carlo Lucarelli ha incontrato Pier Paolo Pasolini parecchie volte, «anche se mai di persona». La prima è stata nell’estate 1973, quando tredicenne scoprì la rubrica «Il caso» da vecchie copie di «Tempo». Lucarelli l’ha raccontato nel libro PPP. Pasolini, un segreto italiano (Rizzoli), nel 2015 a 40 anni dalla morte del poeta, scrittore, regista, drammaturgo, intellettuale. E ora, a cent’anni dalla nascita, quel libro è arrivato a teatro, una produzione de La Fabbrica Illuminata di Cagliari con Il Crogiuolo che a inizio febbraio ha debuttato ad Arzachena e Santa Teresa Gallura e tornerà più avanti.
Che spettacolo ha portato a teatro?
«Si potrebbe chiamare recital: leggo pensieri dal libro, accostati a un contributo musicale, che hanno a che fare da un lato con il caso Pasolini, ovvero il caso criminale della sua morte, e dall’altra con tutto ciò che Pasolini ha rappresentato per “quelli come me”: uno scrittore noir che fa parte della generazione nata negli anni Sessanta, un piccolo intellettuale di provincia, allora apolitico, che leggeva i corsivi di Pasolini. Questo porta a riflessioni sulla strategia della tensione, i morti che c’eravamo dimenticati, la violenza, l’odio politico e il pensiero controcorrente di PPP che fa sempre discutere».
Continua a parlare oggi, anche alle nuove generazioni?
«Quando penso a Pasolini, penso all’affare criminale della morte, che fa parte della vita di una persona, specie se è un poeta come Pasolini, che fa poesia di tutte le cose che fa. Però, a parte questo, a tutti lascia il suo modo di ragionare e confrontarsi: c’è in lui una gentilezza nell’esporre anche le critiche che oggi manca, è percepita come strana e quindi da studiare, anche dai più giovani».
Il diverso linguaggio del teatro aggiunge nuovi livelli, considerazioni?
«Sono mezzi diversi. Nel libro ho cercato una lingua colloquiale, ma vivevo dentro alle parole. In quest’altra dimensione emergono debolezze e forze: a pronunciare quei pensieri (debolezza) sono io, che non sono un attore, ma (forza) con il volto o l’inflessione posso dare enfasi a ciò che dico. Con me ci sono Alessandro Nidi al pianoforte e la voce di Elena Pau: il mio discorsone è inframmezzato dalla musica — canzoni su Pasolini, tratte da poesie di Pasolini o scritte da Pasolini — e dalle sue parole: quando arrivano sono un contributo molto forte».
Che cosa l’ha riportata a un libro che aveva scritto sette anni fa?
«Non sono un uomo di teatro e come in altri casi ci sono arrivato per una bella proposta: mi piaceva potere confrontarmi di nuovo con l’idea che potevo avere su Pasolini, su quegli anni, su di noi, in un modo che va al di là del libro».
È emerso qualcosa di nuovo?
«Sul piano della morte di Pasolini, ho inserito piccoli dettagli che sono emersi, non cose che stravolgono il caso o danno una direzione precisa. Come il carteggio con Giovanni Ventura, quello della strage di Piazza Fontana, dove Pasolini dimostra una conoscenza profonda delle forme della strategia della tensione, che restituisce l’immagine di un Pasolini giornalista investigativo, diversa da quella di intellettuale astratto che ci viene talvolta raccontata: un poeta che aveva strane e pericolose abitudini... Precisazioni che inserirei nel libro se dovessi riscriverlo. Per il resto non dovrei toccarlo più di tanto: mi fu chiesto un libro “definitivo” sulla morte di Pasolini, cosa quasi impossibile, così ho scritto un libro che ha a che fare con quelli come me, Pasolini, la sua morte».
Ha definito Pasolini «uno dei padri (nobili) del noir»...
«La reazione è: “Che cosa c’entrate voi autori di gialli”? Ma noi come esempio prendiamo il famoso articolo Io so... È quello che vogliamo fare: io so perché sono un romanziere, collego i fili. E parla soprattutto di qualcosa che appartiene alla metà oscura della nostra storia. È ciò che spero di essere. Scerbanenco lo era».
Tra i suoi incontri con Pier Paolo Pasolini, c’è stato anche l’incontro con il suo teatro?
«Ho incontrato il suo cinema, i suoi romanzi e, all’inizio, il Pasolini giornalista, ma non il teatro. È un mio errore, andrebbe conosciuto tutto in blocco: Pasolini integrale, come il libro di Gianni Borgna (Castelvecchi) che mette assieme tutta l’opera e i suoi vari rimandi».
Qual è quindi l’eredità di PPP?
«Un’eredità importante, ma bisognerebbe vedere quanto profonda e diffusa. Ha lasciato libri bellissimi e film eccezionali, ma penso che stia soprattutto nel suo essere Pasolini, il modo di fare gentile e spiazzante, il suo modo di indagare».
E la sua morte, oggi cosa ci dice?
«Fa riflettere su cosa significa politica, odio, violenza. Avviene nel contesto di quegli anni incredibilmente violenti, dove tutti i giorni c’erano casi alla Pasolini: contro gli omosessuali, le donne, la parte politica avversa. Contro chi era un’altra cosa. Dovremmo sempre riflettere su dove porta questo tipo di odio violento».
L’omaggio migliore?
«Stiamo celebrando la nascita e quindi: leggerlo, guardarlo. Pasolini è conosciuto per il suo posto nella storia della cultura italiana, ma molti non l’hanno letto. Facciamo di Pasolini un autore popolare: con un suo romanzo che non si è mai letto, un film, il teatro, le canzoni».