Corriere della Sera - La Lettura
L’allievo di Longhi in almeno 4 mostre
La sua idea di la sua arte, le sue contaminazioni celebrerà in autunno uno dei figli adottivi più illustri
In data 3 maggio 1962, durante le riprese per il film Mamma Roma, nelle note diaristiche scritte durante la lavorazione Pier Paolo Pasolini registrava quella che resta, ancora oggi, una summa della sua poetica in tema di arti figurative: «Quello che ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto — che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo)». E su Pontormo lo scrittore-poeta-regista corsaro tornerà a gettare lo sguardo almeno un’altra volta, l’anno dopo, per i celebri tableau vivant del film La ricotta.
Un amore nato da lontano e mai sopito, quello per l’arte da parte di Pasolini. Il quale, come è noto, dipinse e soprattutto disegnò, sia pur con qualche pausa, lungo tutta la vita. Un amore nato sui banchi dell’università seguendo a Bologna le lezioni di Roberto Longhi, al quale il giovane poeta proporrà una tesi di laurea sulla pittura italiana del Novecento, da Carlo Carrà a Giorgio Morandi a Filippo de Pisis. Longhi, il venerato maestro: «Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi — ricorderà Pasolini molti anni dopo (“Tempo”, 1973) — mi sembra di pensare a un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più luce. E anche Longhi, che veniva e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di un’apparizione. Era, infatti, un’apparizione...».
Pasolini e l’arte. Pasolini pittore. Pasolini-Longhi: argomenti sui quali esiste una sterminata (e nobile) bibliografia, e sui quali si proverà a gettare rinnovata luce in occasione di questo imminente centenario con almeno quattro mostre che apriranno a Roma nel corso dell’anno. La prima, dal 14 ottobre alla Galleria d’Arte Moderna di via Crispi, dal titolo Pasolini pittore :un progetto curato da Graziella Chiarcossi, Silvana Cirillo, Claudio Crescentini e Federica Pirani, con 200 opere provenienti in gran parte dal Gabinetto scientifico letterario Vieusseux di Firenze, depositario della più importante raccolta di opere dello scrittore e regista.
Si parte dagli inizi pittorici di Pasolini, dipinti e disegni degli anni Quaranta — ritratti, nature morte e paesaggi dal sapore intimista, fino alla serie di ragazzi seduti, sdraiati e con fiori — che vanno di pari passo con la sperimentazione del letterato. E ancora gli autoritratti (la rappresentazione del sé e del corpo, proprio e altrui, diverranno una costante dell’intera poetica pasoliniana) e i tanti fogli in cui, con tratto veloce, Pier Paolo immortala amici e sodali: Ninetto Davoli, Maria Callas, Laura Betti, Andrea Zanzotto e, ripetutamente, Longhi, ancora lui (l’apparizione del prof tornerà anche nelle Poesie in forma di rosa, in quella partitella immaginaria nella borgata del Trullo dove a tifare e a tirar calci al pallone ci sarà un pantheon di affetti elettivi: «E dentro un cortile tagliato/ dalla luce come in un caravaggesco senza neri, Longhi,/ la Banti, con Gadda e Bassani»...). In mostra anche il disegno, profetico e sconcertante, il cui ritrovamento, in una cartella del 1962, fu giudicato «una vera fortuna» da Giuseppe Zigaina, pittore friulano amico di una vita, tra i pochi artisti figurativi a lui contemporanei che Pasolini amò (un altro, il più vicino alle atmosfere di Ragazzi di vita e Accattone, è il romano Renzo Vespignani, cantore delle periferie urbane, di cui PPP introdurrà una mostra alla galleria l’Obelisco nel 1956). Raffigura, con tratto reiterato in diagonale, quelle che paiono bocche cucite. A margine Pier Paolo annota: «Il mondo non mi vuole più e non lo sa».
Che pittura, storia dell’arte e riflessione sull’immagine non siano state per PPP solo una pratica o una tecnica, bensì caposaldo di una Weltanschauung, è tema di cui si parlerà anche nelle tre mostre, in autunno, a Palazzo Barberini-Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo delle Esposizioni e Maxxi. Un progetto unico e tripartito, Pasolini. Tutto è santo, titolo ispirato alla frase del saggio Chirone nel film Medea, in cui si intrecceranno discipline, opere e documenti, con approfondimenti specifici per ogni sede. Al Palaexpò si indagherà il tema del corpo con i mille rimandi alla vita e alla parola dell’autore. A Palazzo Barberini sarà messo a fuoco lo sguardo pasoliniano in rapporto all’antico e, in generale, alla costruzione di un immaginario visivo. In mostra, tra corpi maschili, matres dolorose e crocifissioni, disegni di Pontormo, foto, quadri di Caravaggio (il San Giovannino della Galleria Corsini da tanti ritenuto antenato dei ragazzi di vita) e Romanino, pittore del XV secolo di cui Pasolini introdusse un’antologica, nonché il volume su Francis Bacon che si vede in Teorema.
Al Maxxi la chiave di lettura dell’opera pasoliniana — con focus incentrato sul 1975, anno della morte dell’autore — sarà evocata anche attraverso lavori di artisti contemporanei. Compito assai delicato tenendo a mente che, a parte eccezioni tra cui l’amico Fabio Mauri, Pasolini non amò avanguardie e neoavanguardie, esprimendo critiche non velate nei confronti di tanti giganti, da Picasso a Warhol, e stroncando, in quella che resta una delle più virulente bocciature di certa contemporaneità, l’opera che Gino De Dominicis presentò alla Biennale del 1972, con un giovane down in prima persona. Un prodotto di «confusione mostruosa», ebbe a scrivere Pasolini, in cui si mescolavano «la provocazione della neoavanguardia — la “pop art” portata alle estreme conseguenze, eccetera — e la provocazione neomarxista dei gruppuscoli». Quel ragazzo era, per il profeta Pasolini, «simbolo vivente dell’idea dell’opera d’arte che in questo momento determina i giudizi del mondo culturale (sottoculturale) italiano».