Corriere della Sera - La Lettura
Non cancellate il nostro nome
è francese di origine algerina, è arrivata bambina in Italia dallo Sri Lanka. Qui le due autrici si confrontano. E concordano: «Il razzismo in Europa c’è ancora. Ed è importante difendere come ci chiamiamo»
«Mi chiamo Fatima», «Mi chiamo Fatima», «Mi chiamo Fatima»... Inizia così, come replicando la cadenza di un mantra, ciascun capitolo dell’intenso monologo La più piccola della scrittrice francese di origine algerina Fatima Daas, voce rivelazione nel suo Paese tradotta in italiano da Fandango. E Nadeesha Uyangoda, che è arrivata dallo Sri Lanka a Nova Milanese, in Brianza, a sei anni, osserva nell’apprezzato saggio-memoir L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd) che «per la pizzeria sotto casa io continuerò a essere Nadia». Nadia, non Nadeesha.
Ventisei e ventotto anni, rispettivamente, Daas e Uyangoda si confrontano via Zoom in un dialogo organizzato da «la Lettura» in vista di Book Pride, dedicato quest’anno al tema Moltitudini.
«Che cos’è un nome?». Giulietta, nella tragedia di Shakespeare, chiede a Romeo di rinunciarvi. Che cosa rappresenta per voi?
Sono da sempre interessata ai nomi propri: influenzano il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri ci percepiscono. «Fatima» ha una forte connotazione religiosa. È così che si chiama l’ultima figlia di Maometto, una donna esemplare. Ho scelto che fosse il nome della mia protagonista, una ragazza lesbica cresciuta nella banlieue parigina, e di ribadirlo via via nella scrittura, non solo perché il libro è un romanzo ispirato alla mia biografia. L’ho fatto soprattutto perché mi interessava il conflitto interiore di una giovane musulmana che, pur avendo una fede profonda, non può soddisfare un modello femminile come quello rappresentato da Fatima.
Per esteso io mi chiamo Nadeesha Dilshani Uyangoda Vithanage. «Nadeesha» significa fiume, ma anche dea del fiume. E così si chiama un corso d’acqua che sfocia nel fiume indiano Yamuna. Quest’ultimo è il nome di mia madre. Purtroppo assistiamo a una tendenza a europeizzare, a sbiancare i nomi a cui non siamo abituati. Ma il nome fa parte dell’identità, è importante mantenerlo. Mi viene in mente quando, nel romanzo Radici (1976) dell’afroamericano Alex Haley, al personaggio schiavo di Kunta Kinte viene tolto il suo nome e gli viene imposto quello di Toby. È importante oggi ribadire l’esistenza di nomi al momento non canonici in Europa, ma che comunque le appartengono, come il mio. E non sovrascriverli con altri, come se la cultura non mutasse mai.
Il nome garantisce di essere visibili. In Francia è un tema caldo. Éric Zemmour, candidato di estrema destra alle presidenziali, sostiene che bisognerebbe obbligare i genitori immigrati a dare nomi francesi ai figli, perché si assimilino in maniera totale. Invece il proprio nome va difeso, va protetto.
In Italia c’è una tensione più sotterranea. Così capita che siano gli stessi genitori di origine straniera, indotti da questa pressione, a dare ai figli nomi italiani. Nomi che a loro volta raccontano una storia perché vengono talora scritti in modo particolare, «Gaya», ad esempio, e non «Gaia». Anglicizzati, francesizzati, a seconda della lingua colonizzatrice nel Paese d’origine.
A due mesi dalle presidenziali, uno dei temi di dibattito in Francia è se in base al principio della «laïcité» non si stia in realtà discriminando, in particolare i musulmani. Un caso recente è un emendamento per vietare i simboli religiosi nello sport contro cui le calcia
persona nera sia automaticamente straniera. C’è un’idea precisa di che cosa ti renda italiano: essere bianco, cattolico, avere una certa cultura. E qualsiasi identità esuli da questo finisce esclusa.
Capisco il rischio di cui parla Nadeesha, ma nel contesto del libro io ho scelto di raccontare diversi episodi di razzismo. Ne cito uno, che nel romanzo ho riplasmato, ma che nella realtà è stato ancora più duro. Mentre frequentavo l’anno preparatorio all’esame di accesso all’università, fui presa da parte da un professore. Il motivo? Non si spiegava come avessi potuto fare un buon compito. «Dove hai copiato, chi lo ha fatto al posto tuo?», mi chiese con terribile violenza. In altri momenti della vita mi hanno addirittura domandato così, direttamente: «Lei è una terrorista?». Davvero, è successo.
Che cosa si può fare?
È difficile rispondere. Dal mio punto di vista, scrivere. E poi agire collettivamente, evitando intanto di votare per chi vuole introdurre forme di discriminazione molto pesanti.
In Italia urge la riforma della cittadinanza. Siamo fermi a una legge del 1992 per cui a una persona extracomunitaria servono dieci anni di residenza e un’infinità di scartoffie per avanzare la richiesta. Una richiesta, non un diritto. Inoltre, concordo sia utile scrivere. Prendiamo i libri per bambini, popolati da personaggi bianchi. C’è bisogno di raccontare identità diverse, di aggiornare la narrazione di una società che è cambiata e sta cambiando.
Entrambe parlate di intersezionalità, della sovrapposizione cioè tra diverse identità e delle relative possibili discriminazioni. Intersezionalità che può diventare anche l’unione delle lotte contro queste stesse discriminazioni.
Non potevo non occuparmene. Nella mia vita ho dovuto cercare io stessa uno spazio che mi corrispondesse. Il femminismo tradizionale non mi conteneva perché la serie di discriminazioni che potevo soffrire non si riduceva ai rapporti uomo-donna. Si allargava al fatto che sono musulmana, lesbica, cresciuta in banlieue.
Il concetto di intersezionalità è bellissimo ma mi sembra difficile da realizzare come strategia. Storicamente in Italia le lotte — femministe, di classe... — non si sono mescolate. Quando parlo con i ragazzi più giovani però noto che loro riescono a dire: «È sbagliato questo ma anche questo». Mettono in fila le discriminazioni e capiscono che non è una questione settoriale ma più grande. Mi danno speranza.
Spesso nei vostri discorsi vi riferite più all’Europa che a Italia e Francia.
Io mi sento europea, un’algerina europea. Perché ho le mie radici nel Paese africano ma sono nata e ho sempre vissuto in Francia, viaggiando nel Vecchio continente. Il problema è ancora se gli altri mi percepiscono europea.
Spesso quando parlo del passato coloniale uso il termine «Europa» perché la responsabilità è condivisa da diversi Paesi. E ancora oggi la mancata rielaborazione non è un problema solo italiano. Ma, come Fatima, mi sento europea, cresciuta in un continente senza confini in cui ho potuto spostarmi anche senza la cittadinanza. Mi vergogno dell’Europa che alza i muri mentre mi riconosco in quella della libertà. Anche per questo, sebbene qualcuno ancora si sorprenda nel vedere una ragazza nera alle celebrazioni, fin da bambina esco a festeggiare il 25 aprile.