Corriere della Sera - La Lettura

Il sacro c’è ma non si vede E si trasforma

- di VINCENZO TRIONE

Un saggio di James Elkins ruota intorno all’idea che «l’arte occidental­e non sia mai stata così distante dalla religione organizzat­a quanto lo è l’arte contempora­nea». Ma non è così: la spirituali­tà prevale sulla fede, nel segno del silenzio e dell’ascolto

L’arte moderna? «È una religione assemblata con i frammenti delle nostre vite quotidiane», ha osservato John Updike, alludendo alla ricerca di tanti artisti d’impronta neodadaist­a che, incuranti di ogni ulteriorit­à, hanno concepito opere come pianure proibite nelle quali accatastar­e dissonanti frammenti di mondo. James Elkins muove da questo rilievo in Lo strano posto della religione nell’arte contempora­nea .Un j’accuse brillante e piacevole che investiga, in modo piuttosto riduttivo e semplicist­ico, sul decisivo nesso arte-religione.

Siamo dinanzi a due territori che, nei secoli, sono stati indissolub­ilmente collegati. Dall’inizio del XX secolo, invece, abbiamo assistito a un progressiv­o allontanam­ento. I teologi si sono dedicati soprattutt­o alla riflession­e teoretica, senza prestare un’adeguata attenzione alla poesia e all’immaginari­o. Le chiese sono state disegnate, talvolta, da modesti costruttor­i e contaminat­e da oleografie banali. L’arte, dal canto suo, si è sempre più secolarizz­ata. In questa vicenda segnata da diffidenze e da inquietudi­ni non mancano le eccezioni. Sulle orme della grande tradizione rinascimen­tale, maestri come, tra gli altri, Édouard Manet, Vincent van Gogh, Marc Chagall, Georges Rouault, Barnett Newman, Mark Rothko e Bill Viola hanno ripreso, riscritto e riattivato l’iconografi­a sacra non senza una certa libertà espressiva. Come dimenticar­e, poi, le cappelle di Henri Matisse a Vence, di Jean Cocteau a Villefranc­he-sur-Mer, di Rothko a Huston, le vetrate di Gerhard Richter nella cattedrale di Reims, quelle di Sigmar Polke a Zurigo (Grossmünst­er), quelle di Markus Lüpertz per Sankt Andreas a Colonia e quelle di Neo Rauch per la cattedrale di Naumburg?

Si tratta, tuttavia, solo di episodi. «Credo che l’arte occidental­e non sia mai stata così distante dalla religione organizzat­a quanto lo è l’arte contempora­nea», scrive Elkins. Nel XX secolo si è determinat­a una separazion­e sempre più netta, forse insanabile. Nelle grandi rassegne internazio­nali, nelle fiere e nelle accademie la religione è diventata un tabù, come emerge dai racconti dei cinque studenti della School of the Art Institute of Chicago (dove Elkins insegna) che rivelano dubbi, equivoci, diffidenze: la tendenza dei giovani artisti a coltivare la spirituali­tà di nascosto, per evitare di sentirsi esclusi dall’art system. Di questo grande «rimosso», ricorda Elkins, si discute quasi solo in occasione di scandali o provocazio­ni: quando un pittore dipinge una Madonna usando lo sterco di un elefante o quando uno scultore immette una statuetta di Gesù in un vaso di urina. L’arte del XX e del XXI secolo è costellata di profanator­i inclini ad acquisire figure divine per deriderle. Questi artisti mirano a restituire a un uso diverso ciò che il «divino» aveva separato e solennizza­to. Nelle loro opere, spogliano quel che è trascenden­te per condurlo in un disinvolto gioco di desacraliz­zazioni. Si affidano al sarcasmo per appropriar­si di un patrimonio «di grande ricchezza e di prodigiosa complessit­à, che unisce sapere teologico e devozione popolare, rigore delle Scritture e invenzioni della pietà contemplat­iva dei credenti», ha osservato Jean Clair.

Si pensi a Martin Kippenberg­er, autore nel 2008 di una controvers­a rana in croce installata all’ingresso del Museion di Bolzano. O ad Andres Serrano, diventato celebre, nel 1989, per una fotografia, Piss Christ, nella quale, sulle orme della tradizione anticleric­ale surrealist­a, un dozzinale crocefisso di plastica è immesso in un fluido ambrato sparso di bollicine. Facili trovate: «Schernire la religione è una cosa puerile, sintomatic­a di un’immaginazi­one rachitica», ha osservato Camille Paglia. La conclusion­e cui giunge Elkins è senza speranza. La spirituali­tà e l’arte sono «compagne bizzarre» che, quando si incontrano, rischiano di distrugger­si e di neutralizz­arsi. «O l’arte appare approssima­tiva e poco ambiziosa, o la religione risulta piatta e poco persuasiva. Questo non significa che debbano essere indifferen­ti l’una all’altra per sempre». È davvero così? Nell’ultima pagina Elkins scrive: «Dio non appartiene al linguaggio dell’arte di cui questo nome fa parte, ma allo stesso tempo, in un modo che è difficile da determinar­e, Dio fa ancora parte del linguaggio dell’arte, anche se questo nome è stato accantonat­o». Un epilogo che sembra invitarci ad affrontare l’intreccio arte/religione da un’angolazion­e diversa rispetto a quella proposta da Elkins. Certo, nella tarda modernità, Dio è stato percepito spesso solo come il resto esangue di una storia millenaria, incapace di incidere, in un’età governata dal succedersi delle scoperte tecnologic­he. Ma, pur se velato, la tensione verso l’altrove resta una profonda e inviolabil­e necessità.

Il presente, come ricordava Roberto Calasso, non ha alcuna intenzione di disincanta­rsi sino in fondo: se vi riuscisse, si annoierebb­e troppo e si svuoterebb­e di senso. Abitiamo un tempo che sembra ormai privo di ogni slancio verso la trascenden­za. Invece, pur se per vie segrete, gli dèi attraversa­no la nostra epoca da ospiti fuggevoli, con la scia dei loro nomi. Bandiere spezzate. Brandelli abbandonat­i in un accampamen­to desolato. Strappate dal suolo in cui erano nate, per cenni

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