Corriere della Sera - La Lettura
Il mio Cyrano, Cyrano per sempre
«Ho sempre desiderato raccontare la storia di Cyrano, un uomo così coraggioso da creare il proprio mondo attraverso la letteratura ma non abbastanza da dichiarare il proprio amore alla persona che doveva ascoltarlo». Per Joe Wright l’incontro con il testo di Rostand avvenne al cinema, con l’adattamento di Jean-Paul Rappeneau, protagonista Gérard Depardieu. «Mi colpì molto, pur non avendo un naso importante mi ero riconosciuto. Non ero a mio agio con me stesso, ero un ragazzo che cercava il proprio posto nel mondo. Volevo raccontarla anch’io, ma in un modo contemporaneo e fresco. Quando ho visto in un piccolo teatro in Connecticut la versione di Erica Schmidt con Peter Dinklage ho avuto una folgorazione».
Lo stigma contro cui combatte il suo Cyrano non è il profilo ma l’altezza.
«Normalmente alla fine dello spettacolo gli attori che interpretano quel ruolo vanno in camerino e si tolgono il naso. Peter (l’attore divenuto celebre grazie al ruolo di Tyrion Lannister de Il Trono di Spade è affetto da nanismo, ndr), oltre a essere di straordinaria bravura, porta in scena la sua esperienza di vita. È qualcosa di potente, regala autenticità profonda. In realtà anche gli altri vertici del triangolo amoroso, Roxanne e Christian sono limitati dai loro corpi».
In che senso?
«Lei, bella come un personaggio di Fellini, non vuole essere definita solo dalla sua apparenza, rifiuta l’idea di essere un oggetto. Canta “I’m nobody’s pet/, no one’s wife/, no one’s woman”. Le abbiamo dato un raggio d’azione più ampio rispetto all’originale di Rostand che non la prendeva molto sul serio. Christian ha l’intelligenza del cuore però, come molti uomini, è stato educato con la convinzione che il suo unico compito fosse di essere forte. Uomini monodimensionali a deni trimento della loro vita spirituale ed emotiva e delle relazioni con le donne».
Il film ha rischiato di non vedere la luce, causa pandemia.
«Vero, ma proprio la pandemia ci ha dato la spinta giusta. Ho sviluppato questo progetto per due anni, volevo fare un film a cuore aperto. Poi è arrivato il Covid, sono stato chiuso in casa come tutti per cinque mesi, la sceneggiatura era a buon punto ed essendo affamato di connessione umane ho pensato di girare subito. Il mio produttore mi ha dato del pazzo. Abbiamo 5% di possibilità di riuscirci, mi ha detto. È abbastanza, facciamolo».
Perché avete scelto Noto?
«Volevo fosse in Europa e non in Gran Bretagna, come risposta alla Brexit. E serviva una location piccola per creare un’oasi protetta. La Sicilia, un’isola, era perfetta e Noto è un incanto, un capolavoro barocco. Un set come un paradiso, con quella pietra color miele che cambia colore con la luce. Ci siamo trasferiti lì con la troupe paneuropea nell’estate 2020, italiani, tedeschi, britannici, irlandesi, belgi, americani, canadesi, molte comparse siciliane, abbiamo creato una bolla con 350 persone. Condizione che per cinque mesi ha creato un’atmosfera di solidarietà e di resistenza».
Lei ha realizzato molte trasposizioni: Jane Austen, McEwan, Tolstoj. Che rapporto ha con il testo di partenza?
«Piuttosto buffo. Di fatto io non ho avuto un’educazione letteraria da piccolo, sono dislessico, fatico a leggere. Vedo gli adattamenti come un’opportunità di imparare. Faccio film non su ciò che so, ma su ciò che vorrei sapere. E non venendo da un background letterario viaggio leggero. Quando ho letto Orgoglio e pregiudizio per la prima volta sono rimasto scioccato all’idea che quel capolavoro fosse stato scritto da una ragazza di 21 anche stava prendendo coscienza del proprio talento. È quello che ho provato a raccontare. In ottobre sono stato a Roma e ho visto la Cappella Sistina. Sono rimasto senza parole, il suo essere iper-popolare non cancella il fatto che ci trovi dentro tutta la vita. Come i grandi classici».
Massimo Cantini Parrini ha ricevuto una nomination per i costumi. Perché lo ha scelto?
«Perché mi piace lavorare con i migliori e Massimo lo è. Ha un profonda conoscenza dei materiali. Quando disegni per il teatro o il cinema non conta solo l’effetto estetico ma come i tessuti si muovono in scena e lui ha un approccio molto preciso e dettagliato alle consistenze, e una capacità fuori dal comune di trattare i tessuti, invecchiarli, renderli vivi».
Le musiche sono di Bryce e Aaron Dessner dei National, come nella versione teatrale.
«Abbiamo rimesso mano a alcuni pezzi, e ho voluto che gli attori cantassero dal vivo durante le riprese, non volevo un effetto da video pop».
I suoi genitori gestiscono un teatro di burattini, il Little Angel Theatre. Lei ha un passato da pittore.
«Una formazione bizzarra. Non c’erano molti soldi a casa, ma culturalmente il teatro di marionette era molto ricco. È considerato un intrattenimento per bambini, ma per mio padre è una delle Belle arti. Lo hanno aperto nel 1959, è un posto speciale. Mi ha insegnato tanto in diversi ambiti. Recitazione, l’ho fatto anche io, tecnica artigianale, musica, e anche gestione del botteghino. Al telefono rispondono i miei. Una volta ha chiamato una signora, voleva sapere se al pubblico si chiede di partecipare, cosa che lei non gradiva. Lui fa: sì signora, gli spettatori partecipano con l’immaginazione. È quello che cerco di portare nel cinema. Il mio mestiere è stimolare la fantasia del pubblico, non fare il lavoro per loro».