Corriere della Sera - La Lettura
Le guerre del dopoguerra
a Mosca, quando Churchill incontrò Stalin senza l’americano Roosevelt: la spartizione dell’Europa di allora avrebbe avuto conseguenze che durano tuttora, seminando insurrezioni, dittature, interventi armati e scontri
Il secondo dopoguerra iniziò a tutti gli effetti nell’ottobre del 1944, quando Winston Churchill si recò a Mosca per un vertice con Stalin, cui era assente il presidente Franklin Delano Roosevelt, impegnato in quella che sarebbe stata la sua quarta e ultima rielezione. Per qualche motivo assai misterioso si tratta di un incontro poco trattato dalla storiografia, mentre invece ebbe un’influenza decisiva su tutto il dopoguerra, fin quasi alla fine del secolo.
Roma era stata liberata a inizio giugno, Parigi a fine agosto, la Germania era in ritirata sia a est che a ovest: un anno dopo l’incontro di Teheran si poteva cominciare a tirare le somme. Il famoso scambio di bigliettini, con la percentuale di influenza che ciascuno avrebbe avuto su Bulgaria, Romania, Ungheria, Jugoslavia e Grecia avrebbe avuto notevole influenza sulla sorte di ciascun Paese, in particolare gli ultimi tre, destinati ad attraversare crisi devastanti.
Forte del 90% dell’influenza attribuitagli per la Grecia, Churchill non tardò a servirsene: gli inglesi scatenarono dal 3 dicembre al 12 febbraio 1945 una selvaggia repressione contro la sinistra greca, giustamente individuata come assai più forte dei sostenitori della monarchia fascistoide, uccidendo migliaia di semplici militanti e simpatizzanti allo scopo di facilitare il ritorno al potere dei loro amici moderati. Come ha raccontato lui stesso, Churchill ebbe la faccia tosta, parlando alla Camera, di dire che ad Atene era stata soppressa un’insurrezione «trotskista», in modo tale da non offendere Stalin con la parola «comunista»; e come rilevò il «Guardian» in occasione del settantesimo anniversario, si tratta di uno dei (numerosi) «segreti sporchi» nella storia della Gran Bretagna, sempre pronta ad autocelebrarsi, meno a indagare sulle pagine buie.
Da parte sua, Stalin non si lasciò impressionare, essendo in procinto di incassare il suo 90% di quota sulla Romania, dove non a caso il partito comunista locale si sarebbe insediato al potere poco dopo. La guerra civile greca riprese nel 1946 in seguito al rifiuto della sinistra di riconoscere la restaurazione monarchica e si concluse nel 1949 con la vittoria di quest’ultima, grazie anche all’appoggio decisivo degli Stati Uniti, subentrati alla Gran Bretagna, e all’abbandono da parte della Jugoslavia dell’appoggio ai ribelli dopo la rottura tra Tito e Stalin.
Il secondo conflitto riguardò l’Ungheria, divisa fifty-fifty nell’incontro di Mosca, che aveva potuto tenere libere elezioni nel 1945 nelle quali i comunisti avevano ottenuto il 17%. Il loro capo Mátyás Rákosi non tardò a instaurare una dittatura talmente settaria da suscitare lo sconcerto dei dirigenti sovietici post-stale cui direttive spesso confuse e contraddittorie però aumentarono la rabbia popolare in tutti e quattro i principali satelliti: dapprima Cecoslovacchia e Germania Est, i cui moti popolari nel giugno 1953 sarebbero stati definiti «nazisti» da Pci e Psi in coro, poi la Polonia con Poznan tre anni dopo, infine l’Ungheria, la cui ventata rivoluzionaria nell’autunno del 1956 ebbe forti somiglianze con quella ucraina degli ultimi vent’anni.
L’amministrazione di Dwight Eisenhower, in procinto di essere riconfermata al potere, mandò chiari messaggi ai sovietici, secondo cui gli Usa non erano interessati a contrarre alleanze con gli ungheresi. Dal canto suo Anthony Eden, ex ministro di Churchill succedutogli a capo del governo di Londra, pensò bene di escogitare una spedizione punitiva contro l’egiziano Gamal Abdel Nasser colpevole di avere nazionalizzato il canale di Suez, la quale ebbe esito catastrofico ma servì egregiamente a distrarre l’attenzione da Budapest. Da notare tre cose: l’Ungheria non voleva la Nato ma una neutralità affine a quella ottenuta dall’Austria un anno prima; l’uscita dal patto di Varsavia fu decretata dopo, non prima, il secondo intervento sovietico; infine, i documenti relativi a Suez risultano ancora indisponibili negli archivi britannici. Inoltre, le velenose falsità rovesciate da Mosca e dai suoi accoliti (soprattutto, ma non solo, italiani) contro ungheresi e ucraini, a 65 anni di distanza, si assomigliano in modo inquietante: l’unica differenza è che nel 1956 l’accolito era Palmiro Togliatti e oggi è Matteo Salvini, a dimostrazione ulteriore che la storia è dapprima tragedia e poi si ripete come farsa.
Un decennio dopo, furono nuovamente la Grecia e poi la Cecoslovacchia a salire alla ribalta: di fronte a una sinistra che aumentava i consensi, nel 1967 fu deciso con il pieno appoggio degli Usa e della Nato di sostituire la monarchia parlamentare di Atene con un regime militare, mentre a Praga e Bratislava gli effetti tardivi del disgelo kruscioviano producevano un graduale trapasso dall’oppressiva rigidità burocratica a un’atmosfera di creatività e di ritrovato consenso popolare verso un partito comunista, guidato da Alexander Dubcek, inconsapevolmente trasformatosi in socialdemocrazia di tipo nordico, aperta al confronto politico, alla sperimentazione economica e alla completa espressione culturale.
Il nuovo capo del Cremlino, Leonid Brežnev non tardò a mettere in moto un meccanismo di accerchiamento, mobilitando tutti i satelliti confinanti con la Cecoslovacchia, più la Bulgaria, allo scopo di soffocare al più presto un esperimento giudicato molto pericoloso per la ventata di libertà che implicava.
L’intervento armato del 21 agosto 1968 fu un’altra tragedia europea e mondiale: nonostante il carattere sempre assolutamente pacifico degli otto mesi e mezzo noti come Primavera di Praga, da esso arrivarono morte e distruzione, dolore ed esilio, oltre a un altro ventennio di oppressione ottusa e burocratica.
Molto interessante notare che, come rilevò Hannah Arendt in un brillante e poco noto saggio del 1958 sulla rivoluzione ungherese, l’imperialismo totalitario moscovita, contrariamente a quello occidentale, può essere influenzato in modo decisivo dai Paesi che opprime. E infatti Mikhail Gorbaciov, arrivato al potere a metà degli anni Ottanta, avrebbe seguito una linea fortemente improntata al tipo di aperture e di riforme precedentemente realizzate in Cecoslovacchia.
Tornando indietro agli anni Settanta, la giunta militare greca era entrata in grave crisi dopo la strage di studenti del dicembre 1973. Presa dal panico, anche a causa della crisi economica, nel luglio dell’anno successivo cercò di approfittare della situazione cipriota, dove le popolazioni greca e turca si combattevano senza esclusione di colpi fin dall’indipendenza del 1960, nientemeno che con il tentativo di annettere l’isola.
Allarmati dal rischio di fratture nella Nato, cui anche la Turchia aveva aderito fin dal 1952, gli Stati Uniti dettero luce verde a un’invasione militare turca da nord, la quale contribuì a creare una divisione che ancora oggi — a quasi mezzo secolo di distanza — appare insormontabile.
Si diceva delle riforme di Gorbaciov, che decollarono in modo decisivo nel 1988, anno in cui lo stesso Dubcek uscì dal suo confino ventennale grazie a una nota intervista rilasciata a Renzo Foa. Nel marzo di quell’anno, il capo del Cremlino effettuò una visita a Belgrado, capitale di una Jugoslavia anch’essa spartita fifty-fifty nel 1944 e da otto anni orfana di Tito. Egli disse ai nuovi dirigenti che non solo Stalin aveva sbagliato quarant’anni prima, ma che Tito aveva avuto pienamente ragione e che il modello da lui costruito era uno degli esempi che lo stesso Gorbaciov era intenzionato a seguire. Questa dichiarazione paradossalmente segnò l’inizio della fine del regime, che si sarebbe sfaldato nel giro di tre anni in conseguenza della trasformazione di alcuni dirigenti delle repubbliche in sciovinisti estremi, mentre altri più prudenti tentavano l’aggancio con l’Ue, creata a Maastricht in concomitanza con la fine dell’Urss.
La mancata differenziazione tra gli uni e gli altri, compiuta sia da Washington che da Bruxelles, quest’ultima nonostante i saggi consigli del francese Robert Badinter, portò a gravi conseguenze e a un’accentuazione delle guerre di succesliniani,