Corriere della Sera - La Lettura
Quaranta miliardi di miliardi
Una collaborazione tra università italiane e inglesi consente un primo, parziale, censimento dei mostri celesti inseguiti da un secolo e fotografati nel 2019. Un ricercatore della Sissa di Trieste spiega com’è stato calcolato il numero
Quando, nel 2019, con la rete dei radiotelescopi Event Horizon Telescope il mondo potè vedere la prima fotografia di un buco nero, la sua immagine colpì la fantasia regalando un volto ai «mostri» del cielo inseguiti da un secolo. Concepiti dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein, i buchi neri conservano ancora buona parte dei loro misteri nonostante generazioni di fisici — da Robert Oppenheimer a Stephen Hawking — ne abbiano investigato la natura. In passato qualcuno sosteneva che la loro esistenza fosse solo teorica, ma nuovi strumenti di osservazione hanno lasciato intendere che nel cuore di ogni galassia probabilmente sia nascosto un buco nero (e di galassie ne esistono miliardi). Inoltre è diventato chiaro che tutte le stelle di una certa massa possono diventare alla fine della loro vita un «mostro» celeste. Ma la domanda sul loro numero è rimasta a lungo senza risposta. Fino a gennaio.
Due mesi fa sull’«Astrophysical Journal» è stato pubblicato il risultato di uno studio nell’ambito del progetto BiD4BESt (Big Data applications for Black hole Evolution Studies) finanziato dall’Unione Europea con 3,5 milioni di euro, coordinato dal professor Andrea Lapi e dai ricercatori Alex Sicilia e Lumen Boco della Sissa di Trieste, al quale hanno partecipato astrofisici dell’Università di Padova, di Southampton e Durham in Inghilterra. Nello studio si calcola il numero dei possibili buchi neri esistenti nell’universo osservabile, vale a dire nella sfera del diametro di 90 miliardi di anni luce, dove se ne stima la presenza di circa 40 trilioni, cioè 40 miliardi di miliardi.
È il primo censimento degli oggetti più intriganti del cielo, frutto di un nuovo metodo numerico sviluppato da Mario Spera, anch’egli della Sissa, che apre a ulteriori conseguenze. Il risultato, infatti, del tutto teorico, descrive insieme l’evoluzione delle stelle nelle galassie, le loro caratteristiche chimiche, la massa che possono raggiungere e l’ipotesi che possano collassare in un buco nero. Il modello, inoltre, ne identifica una possibile storia «arrivando a capire — dice Lumen Boco, co-autore dell’articolo — l’ambiente in cui si formano, la loro origine e le differenze che manifesteranno sino a diventare o meno dei mostri».
Se la base concettuale dei buchi neri fu il frutto della mente di Einstein, il passo determinante da cui derivò la loro descrizione uscì dalle trincee della Prima guerra mondiale. Qui, nel corso di logoranti attese, il matematico tedesco Karl Schwarzschild, risolvendo le equazioni einsteniane, stabilì il raggio che porta il suo nome, al di là del quale la luce non può più sfuggire dalla massa superconcentrata. Ciò accadrebbe se, per esempio, un oggetto con massa analoga al nostro Sole collassasse entro un raggio di tre chilometri (nel futuro del Sole, tuttavia, non può succedere perché ha una quantità di materia insufficiente per innescare il processo). Einstein riteneva impossibili le conclusioni del collega, però la storia darà ragione a Schwarzschild.
In ogni caso, l’identikit del mostro rimane ancora in buona parte vago e incompiuto. «Bisogna cambiare le nostre teorie — dice Boco — e fondere la meccanica quantistica con la relatività per ottenere una descrizione appropriata».
Nonostante alcuni tentativi (uno dei protagonisti su questo fronte è Carlo Rovelli) l’impresa della «gravità quantistica» — come è stata battezzata — rimane la grande sfida incompiuta della fisica.
Oggi la realtà nota è circoscritta dalle limitate possibilità di osservazione che hanno permesso di stabilire la presenza di piccoli buchi neri con masse fino a 150 volte quella del Sole, oppure quella di supermostri con una massa tra un milione e un miliardo di Soli in attività soprattutto al centro delle galassie. «Come si formano i giganti? — si domanda Boco — Sono il frutto dell’accrescimento di gas su buchi neri stellari o del collasso diretto di piccole galassie primordiali? Tra le due popolazioni estreme ci sono solo alcuni indizi, nessuna prova, tanto che alcuni fisici ipotizzavano che nulla potesse esistere in questa dimensione. Prima della scoperta delle onde gravitazionali potevamo rilevare soltanto buchi neri con una massa venti volte il Sole, poi siamo arrivati a mostri anche 80 volte più massicci».
Forse una prima conferma da questa terra di mezzo è emersa nelle ultime settimane dai ricercatori dell’Università americana dello Utah che hanno individuato un possibile buco nero all’interno della vicina galassia di Andromeda (M31), valutato centomila masse solari. Per il momento gli effetti studiati si riferiscono a un ammasso di stelle in cui gli studiosi hanno constatato come la velocità degli astri sia più rapida nella zona centrale. Questa potrebbe essere la prova dell’esistenza di un buco nero intermedio.