Corriere della Sera - La Lettura
Spariscono le persone e compaiono i destini
ha lasciato la finanza per scrivere. Il suo nuovo romanzo comincia con una bambina inghiottita dalla folla a New York e cercata per anni: «Ma non è un semplice thriller». E nella sua Malaga ci stanno girando già una serie tv
Ci sono romanzi che nascono da un sogno, altri da un dolore, altri ancora da esperienze di vita vissuta. Questo thriller nasce da un attacco di ansia anticipatoria: «Un giorno — racconta Javier Castillo, autore spagnolo di best seller da un milione di copie — camminavo con mia figlia a cavalcioni sulle spalle in mezzo a molta gente. Quando lei mi chiese di metterla giù perché aveva visto la mamma sei o sette metri più avanti e voleva raggiungerla, l’ho posata al suolo e lei ha cominciato a correre. Un pensiero terrificante ha attraversato allora la mia mente: e se un’onda di folla ci avesse separato all’improvviso? E se lei fosse sparita dalla nostra vista? E se non l’avessimo più ritrovata?». Così, forse anche per liberarsi dall’incubo di una disgrazia che fortunatamente non avvenne, il papà romanziere ha scaricato la nefasta eventualità su un’immaginaria coppia newyorkese, Aaron e Grace Templeton, a spasso per Manhattan con la loro bambina di tre anni, Kiera, durante la parata annuale del Giorno del Ringraziamento.
È il 26 novembre 1998 quando Aaron fa lo stesso gesto innocente di Javier: solleva la piccola dalle sue spalle e la deposita a terra perché possa avvicinarsi a una festosa Mary Poppins che distribuisce palloncini bianchi all’angolo della strada, pochi metri più in là. Quella breve distanza diventa una voragine quando, in mezzo a un’esplosione di coriandoli rossi e di grida infantili, la ressa di turisti e genitori comincia a oscillare, arrivano spintoni da tutte le parti, qualcuno inciampa addosso ad Aaron, che perde l’equilibrio e anche la manina di Kiera che stringeva nella sua. Quando il papà si rialza la bimba è scomparsa. Quanti piccoli si perdono alle parate e, ogni giorno, ai grandi magazzini? La polizia si mostra inizialmente tranquilla: la troveremo, non preoccupatevi, promettono gli agenti alla coppia angosciata. Ma se ci riuscissero, il lettore si perderebbe le successive 370 pagine de La ragazza di neve, il nuovo romanzo tradotto in italiano da Salani dell’autore de giorni della follia (Harper&Collins).
Si perderebbe il mistero della scomparsa di Kiera risucchiata dal vortice di un torrente umano e anche l’enigma delle videocassette che cominciano a spuntare cinque anni dopo e che mostrano una bambina — è la stessa? — giocare in una cameretta. Non la sua, però. E, soprattutto, il lettore si perderebbe le indagini di Miren Triggs. Era una promettente studentessa di giornalismo alla Columbia University, l’anno in cui Kiera si smarrì diventando la bimba più ricercata negli Stati Uniti, e si è trasformata in una impeccabile professionista al «Manhattan Press» 12 anni più tardi, quando il caso è chiuso, senza che lei abbia mai perso la speranza. Come Aaron e Grace, Miren cerca di penetrare la cortina di «neve», il fastidioso sfarfallio in bianco e nero sullo schermo di una tv, che li separa dalla bambina e dalla verità.
Castillo non viene dal mondo del giornalismo ma della finanza. Con un master in Management alla Escp European Business School, il suo futuro pareva saldamente installato tra i bilanci aziendali e le fluttuazioni in Borsa, finché nel 2014, a 27 anni, non ha dato un’opportunità alla sua passione segreta, scrivere, pubblicando, per suo conto su una piattaforma digitale, il suo primo romanzo, già rifiutato da
Idiversi editori. Più o meno gli stessi che, poche settimane dopo, spiazzati dall’enorme successo virtuale, già se lo contendevano. Otto anni dopo, nella sua Malaga natale, sta seguendo le riprese della serie che Netflix ha deciso di trarre da La ragazza di neve. «Siamo a una fase della lavorazione molto importante: la scena in cui Kiera si perde nella folla ma, siccome la serie è ambientata qui in Spagna, avverrà il 6 gennaio, durante la Cavalcata dei Re Magi anziché alla parata del Ringraziamento», racconta.
La misteriosa sparizione di Kiera ne ricorda altre realmente accadute, come quella della bimba inglese della stessa età, Maddie, in Portogallo nel 2007: si è ispirato a qualche caso in particolare?
«Ricordo bene la vicenda di Maddie, ma ci sono tantissimi casi del genere accaduti anche negli Stati Uniti. Ne ho studiati molti, proprio perché volevo evitare che la mia storia assomigliasse a qualcuno di loro. Sono vicissitudini dolorosissime e vanno rispettate. Tanti anni fa, qui a Malaga, c’è stato un fatto di cui si continua ancora a parlare: la scomparsa del niño pintor, un bambino prodigio di 8 o 9 anni con un talento straordinario per la pittura. Era un piccolo genio e dipingeva quadri incredibili per la sua età. Era già famoso quando svanì un giorno mentre camminava per strada. Stava andando al suo laboratorio e non ci è mai arrivato. Tante persone, da allora, hanno sostenuto di averlo visto in qualche luogo, ma purtroppo non è mai stato ritrovato».
La stampa, di solito, a un certo punto dimentica pure le vicende più clamorose. Che cosa spinge Miren, la protagonista, a non archiviare le ricerche?
«Nel romanzo si intrecciano molti temi alla volta. Non soltanto professionali. C’entra anche il passato della protagonista. Ecco perché ho preferito che Miren fosse una giornalista, e non una poliziotta. Cercando quella bambina, Miren spera di ritrovare sé stessa. Anche lei ha sofferto traumi violenti nella sua vita e anche lei si è persa, come Kiera. Per questo è tanto coinvolta».
Affiora qualcosa in più dalle pagine del libro: c’è una critica al giornalismo?
«Solamente al giornalismo morboso, sensazionalista, quello che spesso, tristemente, prevale. Ma esiste anche un buon giornalismo. Miren, da studentessa, insegue i suoi ideali, vuole diventare implacabile nella ricerca della verità».
Ma si scontra con il suo capo.
«Phil Marks, il direttore, teme per la reputazione del proprio giornale, nel caso in cui Miren dovesse commettere qualche errore. Il “Manhattan Press” è un giornale autorevole e questi sono i timori tipici dei grandi giornali, che devono difendere la propria immagine e dove le conseguenze di uno sbaglio possono essere maggiori. Il giornalismo locale, sotto questo punto di vista, mi sembra più puro, meno condizionato. Più prossimo all’essenzialità della cronaca».
«La ragazza di neve» non è neanche un semplice racconto poliziesco, vero?
«Sì, è un genere diverso di thriller. Ero interessato a sviluppare e approfondire anche altre questioni. Ho voluto analizzare per esempio il significato della maternità. Che cosa voglia dire per una donna desiderare con tutte le proprie forze di diventare madre e doversi scontrare con il non poter avere figli».
Ricorda la foto del neonato afghano affidato dai genitori a un marine perché fosse portato in salvo oltre la barriera, mentre la calca all’aeroporto di Kabul rischiava di schiacciarli, la scorsa estate? Passarono quattro mesi prima che il bambino fosse ritrovato.
«Sì, certo, me la ricordo. Capisco benissimo quei genitori, che hanno dimostrato in questo modo la forma d’amore più grande. E sì, credo proprio che anche io, nella loro stessa situazione, avrei deciso di affidare mio figlio alle mani di uno sconosciuto, senza avere la certezza di riuscire poi a ritrovarlo, purché fosse portato in salvo».