Corriere della Sera - La Lettura
Il vero Thomas Hardy non era romanziere
resta famoso per la sua prosa che tuttavia abbandonò di colpo, dedicandosi ai versi per il resto dell’esistenza. Era quella la vocazione più autentica: una voce anticonvenzionale e formidabile
Quello di Thomas Hardy è un caso più unico che raro. Lo aveva sottolineato anche il nostro Eugenio Montale, in un articolo uscito giusto sul «Corriere della Sera» nell’agosto 1968. «Non si ha notizia di un prosatore-pensatore — scriveva infatti Montale — che, su altro registro, sia stato tanto poeta-poeta. E, per complicare le cose, la poesia di Hardy tanto più è poetica quanto più è prosaica nel linguaggio e nei motivi». In effetti, la carriera dello scrittore inglese che almeno dal punto di vista pubblico appare spezzata in due, risulta poi unificata dalla qualità dei risultati: prima il grande successo con i romanzi, poi, accantonata una volta per sempre l’attività narrativa (con L’amata, del 1897), la celebrità procuratagli via via dalle raccolte di versi.
In Italia, tuttavia, il primo piatto della bilancia pesa molto di più, in quanto a tutt’oggi Hardy è noto quasi esclusivamente per i romanzi. Basti pensare ai suoi due capolavori, Tess dei d’Urberville e Jude l’oscuro, amatissimi tra l’altro dal più anglofilo dei nostri scrittori, Beppe Fenoglio, del quale si celebra quest’anno il centenario della nascita (al primo dei due assegnerà perfino un’importante funzione narrativa all’interno del suo Una questione privata).
Come detto, la qualità dell’opera in versi di Hardy non è però meno notevole di quella in prosa. Anzi, se si guarda all’officina della sua scrittura, si deve riconoscere che è stato un poeta che per una ventina d’anni o poco più si è prestato al romanzo. Per sbarcare il lunario, anzitutto, come per sua stessa ammissione. Lo sottolinea adesso Edoardo Zuccato, nell’introduzione al bel volume antologico che ha curato e tradotto per le edizioni Elliot: L’orologio degli anni. Poesie 18571928. Ricordiamo che fino ad oggi, anche se non è mancata qualche altra traduzione, la raccolta di riferimento per la lirica di Hardy è stata l’antologia Poesie per Guanda, uscita sul finire del 1968 a cura di Ghan Singh (la cui prefazione, per altro, è costituita dall’intervento di Eugenio eti che sembrano fatti apposta per mandare in aria le classificazioni consolidate. Non solo perché si tratta di uno scrittore vittoriano la cui presenza poetica si è imposta però nel primo quarto del Novecento. Il fatto è che non ha nulla da spartire con i modi espressivi che si andavano viepiù consolidando proprio negli anni della sua massima fecondità creativa: lo spirito d’avanguardia, il modernismo, l’impersonalità, il cosmopolitismo, la liberazione formale, ma anche, d’altro canto, l’alto tasso di letterarietà. Al contrario, Hardy parla direttamente di sé, di esperienze individuali, private, occasionali, e proprio per questo immediatamente riconoscibili. È un poeta idiosincratico, legato a luoghi e a tempi particolari e determinati; ed è un poeta metrico, che impiega però un linguaggio fortemente prosastico e tendenzialmente popolare, certo non specializzato in senso letterario.
Come prendere le misure, allora, a una poesia estranea a ogni presunto dover essere della storia e delle forme espressive, e dunque apparentemente anacronistica? In fondo, Hardy non fa che scrivere poesie, senza tante storie o particolari dichiarazioni d’intenti; e però spesso poesie vive, capaci d’innescare nel lettore quella specie di prolungata risonanza interiore che è il segno più inequivocabile che certi versi hanno agito in profondità. E forse a lasciare un poco disorientati è proprio la constatazione che un uomo tutt’altro che in sintonia con gli orientamenti più condivisi dell’epoca, abbia in realtà radici affondate nel suo presente molto più profondamente di altri. Basti questo: agnostico e — da ogni punto di vista, anche e soprattutto quello della storia, della società, dei valori — anticonvenzionale, Hardy è un poeta ossessionato dalla violenza della natura, dalla consumazione operata dal tempo, dai raggiri del destino, dai patimenti della vita, anche dalle illusioni e dagli inganni che gli uomini finiscono per imbastire a propria difesa, se non a proprio danno.
Le sue poesie più belle arrivano non a caso nella tarda maturità, quando il poeta torna con la memoria a certi luoghi del passato e ai particolari momenti che vi sono legati. È in questo confronto che tocca il suo meglio. Come nelle poesie scritte dopo la morte della moglie Emma, nel 1912: «Guardando la vedo lì, sempre più piccola,/ nella pioggia mi giro verso di lei/ per l’ultima volta, poiché la mia sabbia scende/ e nei vecchi regni d’amore/ non potrò mai più viaggiare».