Corriere della Sera - La Lettura
Questa «Tempesta» è come un musical
Prospero, Duca di Milano, cacciato dal suo regno, buttato in mare con la figlia Miranda su un’imbarcazione incerta, naufraga su una misteriosa isola. Anni dopo, attraverso l’uso dei suoi poteri magici, trionfa sui propri nemici e recupera il ducato perduto. Ridotta all’osso è la trama de La tempesta. Shakespeare ha 47 anni quando scrive quest’opera, il ciclo delle grandi tragedie è concluso, conquistate la fama e l’agiatezza. Il «Cigno di Avon» prende congedo dal palcoscenico: «I miei incantesimi sono finiti» annuncia al pubblico l’epilogo. Con quest’opera complessa e disseminata di implicazioni simboliche si confronta Alessandro Serra, autore, scenografo, regista, light designer, fra i grandi nomi del teatro contemporaneo, premio Ubu 2017 come «miglior spettacolo dell’anno» per Macbettu, rivisitazione del Macbeth ambientata in Barbagia e recitata in sardo.
Prodotta dal Teatro Stabile di Torino in collaborazione, tra gli altri, con Teatro di Roma ed Ert, La tempesta debutta dopodomani, martedì 15 marzo, alle Fonderie Limone di Moncalieri (Torino). «La Lettura» ha incontrato Alessandro Serra e Paolo Bertinetti, professore emerito di Letteratura inglese all’Università di Torino, autore del recente Shakespeare creatore di miti (Utet, 2021), che ha assistito, in esclusiva, alle prove dello spettacolo.
Serra, dopo il «Giardino dei ciliegi» di Cechov, torna al Bardo. Perché?
Avevo annunciato che mi sarebbe piaciuto dedicarmi a una «trilogia del potere»: Riccardo III e Re Lear dopo Macbeth, per me massima vetta di Shakespeare. La tempesta èun lavoro maturato nel lockdown, durante il quale ho studiato molto per scrivere un piccolo saggio richiesto da Feltrinelli in occasione della nuova traduzione di William Shakespeare di Victor Hugo.
Cosa l’ha colpita di quest’opera?
Il suo essere un omaggio commovente e straziante al teatro; e poi il tema del perdono e la compassione, che Prospero apprende da Ariel, uno spiritello dell’aria. Shakespeare non è mai stato così metateatrale come in questo testo. Non solo. Lavorando alla Tempesta è emersa con potenza tellurica la sua forza politica. Messa da parte la trilogia del potere, mi sono accorto di essere «inciampato» paradossalmente in un’opera in cui il tema del potere è presente come in nessun’altra.
Shakespeare scrive La tempesta nel 1610, sapendo che sarà la sua ultima opera: la casa a Stratford è ultimata, ha comprato diversi terreni, è ormai un agiato possidente. Ha chiuso, se ne andrà. Impossibile non leggere nelle parole di Prospero dell’epilogo («Un gentil vostro soffio deve gonfiar le mie vele,/altrimenti fallisce il mio scopo/ che era quello di divertire. Ora non ho spiriti a cui comandare, né arte da far incantesimi,/ la mia fine sarà disperata/ a meno che non sia soccorso da una preghiera/ che sia così commovente da vincere/ la stessa divina misericordia e liberare da ogni peccato») una sorta di testamento del Bardo. Nell’opera, concordo con Serra, la dimensione del perdono è fondamentale. Prospero perdona nemici, avversari, suo fratello Antonio, l’usurpatore — l’usurpazione del potere è una colonna di tutta la produzione teatrale di Shakespeare e, più significativamente, nell’ultima sua creazione. A proposito del creare, Dumas diceva: «Dopo Dio, Shakespeare è il più grande creatore».
Serra, come ha lavorato all’adattamento del testo?
Ho espunto dal testo il «superfluo», ossia ciò che è impossibile per lo spettatore di oggi decodificare immediatamente — codici e convenzioni presenti all’interno delle opere, in gran parte andati perduti, che gli consentivano di sveltire la trama, il racconto, la lettura della situazione, squisitamente attinenti alla società elisabettiana, che solo qualche erudito è in grado di riconoscere. Ma sono rimasto fedele alle parole dell’autore. Come Shakespeare, scrivo in scena, per e attraverso i miei compagni (fellows). Ho inventato semmai, come sempre provo a fare, un suono con gli attori: il testo va in un certo senso «cantato». E ho lavorato sulle parole «radianti», quelle che, come dicono JeanClaude Carrière e Peter Brook, tornano in varie parti del testo come unite da una costellazione invisibile, parole che veramente mettono luce, che divengono immagine. Nel momento in cui si manifesta l’immagine, possiamo togliere la parola.
Ricordo che Shakespeare non scriveva testi teatrali, ma copioni...
Copioni che, se avesse potuto metterli in scena, avrebbe cambiato ancora...
E alla scena come ha invece lavorato?
Non amo le scenografie intese come «decoro», penso che una scena «statica», per quanto meravigliosa, non attivi nulla nella fanta