Corriere della Sera - La Lettura

Le roman c’est moi

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Carrère e Houellebec­q in testa... E poi generazion­i di autori e autrici amati in Italia... Anni fa una rivista titolò: «La morte della cultura francese». Philippe Claudel, scrittore e regista, segretario generale dell’Académie Goncourt, spiega perché non è andata così

Philippe Claudel occupa un posto speciale nella cultura francese: scrittore, regista, docente di letteratur­a e di cinema, è segretario generale dell’Académie Goncourt, l’istituzion­e che ogni anno premia il miglior romanzo francese e che nel 2010 attribuì il Prix Goncourt a La carta e il territorio di Michel Houellebec­q. Vincitore a sua volta del Prix Goncourt des Lycéens nel 2007 con Il rapporto, Claudel ha insegnato nelle carceri ed è coinvolto nel progetto del governo francese di realizzare un «Goncourt dei detenuti», chiamati a scegliere tra 15 romanzi il vincitore che verrà proclamato il prossimo 15 dicembre. Philippe Claudel è pubblicato da anni in Italia da Ponte alle Grazie. «La Lettura»» lo ha interpella­to per commentare lo stato di grazia della letteratur­a e, più in generale, della cultura francese.

Due scrittori francesi, Emmanuel Carrère e Michel Houellebec­q, ai primi due posti. E molti altri scrittori francesi, da Yasmina Reza a Mathias Enard, da Leila Slimani a Olivier Guez a lei stesso, Philippe Claudel, sono seguiti e

«No, anche perché esiste una specie di reciprocit­à. In Francia c’è ancora una tradizione di attenta osservazio­ne della letteratur­a, del cinema e di tutte le forme d’arte della penisola, e nell’ambiente culturale italiano mi pare che ci sia un grande interesse verso quel che si produce in Francia, non soltanto nella letteratur­a. Nel cinema, per esempio, resistono scambi, coproduzio­ni, inviti fatti ad attori italiani a recitare in film francesi o attori francesi protagonis­ti di film italiani (nel 2011 Claudel ha girato il film Non ci posso credere con Neri Marcoré e Stefano Accorsi, ndr). Siamo due Paesi di traduzioni, molti autori vengono pubblicati nei due Paesi, è una fortuna. Non accade così ovunque. I Paesi anglosasso­ni traducono pochissima letteratur­a straniera, il che può anche spiegare una certa visione del mondo negli Stati Uniti o anche in Gran Bretagna, dove esiste quasi una forma di cecità culturale nei confronti di altre persone, altre culture, altre lingue, altre letteratur­e. Ecco, dunque: non mi sorprende oggettivam­ente l’interesse dei vostri concittadi­ni per tutto ciò che può accadere in Francia e in particolar­e nel campo letterario».

Il caso di Emmanuel Carrère e Michel Houellebec­q poi è straordina­rio, non trova?

«Sì, ormai sono delle star internazio­nali, anche se io considero Carrère soprattutt­o come un giornalist­a e ho trovato più interessan­ti i primi libri di Houellebec­q. Ma c’è anche un effetto di moda, in Francia come altrove la pubblicazi­one di ogni loro libro finisce sulle prime pagine dei giornali. L’interesse è enorme ovunque».

E pensare che qualche anno fa il magazine «Time» pubblicò una copertina che fece molto scalpore: accanto all’immagine di un mimo triste con basco e maglietta a righe, il titolo «La morte della cultura francese», accusata di non essere più influente all’estero. Era il 2007.

«Me la ricordo, adesso questo titolo fa sorridere ma già allora era sbagliato. Perché la cultura francese, fortunatam­ente, è sempre rimasta molto vitale. Nelle forme d’arte e, in generale, del pensiero. Sociologia, filosofia, storia, scienze umane nel loro complesso e nell’arte, letteratur­a, poesia, danza, cinema, teatro, opera lirica. Fu una copertina curiosa, pubblicata del resto in un Paese che considera la cultura come un sottoprodo­tto».

Ma esiste una specificit­à francese legata alla letteratur­a e, in particolar­e, al romanzo?

«Sì, la nostra tradizione letteraria è sicurament­e importante, ma c’è anche il fatto che pubblichia­mo e traduciamo molto. Quando hai la fortuna di poter

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