Corriere della Sera - La Lettura
Se il sole non sorge più allora va inventato
Servono parole per spegnere la notte. Se la notte non vuole finire, se il sole non sorge, allora il sole — un sole qualsiasi — occorre inventarselo: tocca che qualcuno si faccia sole lui stesso per rimettere ordine nel mondo. E una notte così occorre narrarla, non lasciarla morire nel sonno o confonderla con un sogno. Servono le parole, e Yan Lianke — uno dei maggiori autori cinesi — affida a un io narrante quattordicenne, «Niannian lo scemo», il compito di salvare la memoria della notte interminabile che occupa Il giorno in cui morì il sole.
Il romanzo si svolge in un villaggio fittizio di una Cina paradigmatica. La comunità di Gaotian vive dei suoi legami, del lavoro dei campi e di poche botteghe. I genitori di Niannian hanno un negozio di addobbi funebri, campano loro malgrado del dolore altrui. Specula invece lo zio di Niannian, che gestisce il crematorio dove il ragazzino dà una mano sentendosi «come un albero cresciuto sulla soglia della porta che conduce al mondo dei morti». Lì dentro non solo si bruciano i cadaveri, ma si accumulano i resti della combustione: su quelli lucrare è possibile e il facile guadagno seduce il padre di Niannian. Eppure, proprio in quel luogo di desolazione dove gli operai si ubriacano, Niannian incontra «la piccola Juanzi», sgraziata e delicata, che vuole trasformare la fornace «in una serra paradisiaca, ornandola e decorandola di fiori». È lì «il punto di partenza e di arrivo delle vicende di quella notte».
Niannian sta leggermente fuori asse rispetto alla vita, eppure coglie lucidamente il momento in cui il mondo prende una curva strana. Accade quando il paese scivola di colpo in un «sonnambulismo collettivo» che inghiotte gli abitanti e stravolge l’esistenza di tutti. La notte cambia tutto e il romanzo la scandisce ora per ora: «Ecco cos’è il sonnambulismo. Un uccello selvatico che penetra nelle menti degli uomini» perché «quando uno è sonnambulo funziona che fa di notte quello che ha pensato di giorno». Nei campi, nelle strade, nei vicoli oscuri come «nastri di buio» gli abitanti di Gaotian si trasformano. Lavorano fino ad ammazzarsi di fatica, si confessano segreti indicibili, si rimproverano antiche mancanze. Saltano i vincoli sociali, si allenta fino a sparire il senso morale, Gaotian diventa «un posto molto propizio a ladri e banditi», ci si accoppia e ci si accoppa in un’anormale normalità: «Il mondo era diventato molto strano e molto curioso», un universo «sottosopra come una foresta abbattuta dalla furia del vento». Chi si accorge di che cosa succede cerca di non addormentarsi ma non si sa davvero chi sia sveglio e chi assopito. Dai villaggi vicini arrivano a saccheggiare e ammazzare, evocando rivolte del passato. Regnano gli istinti allo stato brado. La notte non finisce più, «simile a una matassa di filo nero che non si sarebbe mai finito di svolgere», ma sarà il padre di Niannian, immolandosi, a riportare l’ordine naturale a Gaotian e sarà proprio Niannian a testimoniarne, con il suo racconto, il gesto salvifico.
Il giorno in cui morì il sole conferma gli strappi lirici, l’attenzione alla corporeità e la vena allucinata della prosa vischiosa di Yan, che la traduzione di Lucia Regola rende nelle sue frasi ripetute, in certe studiate prolissità, tra l’oralità epica e il piglio popolareggiante. Si ritrova, fortissimo, l’impianto metaletterario del precedente I quattro libri (2011). Qui uno dei personaggi si chiama nientemeno che Yan Lianke, è in crisi perché non riesce a creare e si ritrova anche lui sul crinale tra sonno e no («Se non ti svegli ci morirai, nella tua storia!», gli grida la madre): Niannian, lo scemo del villaggio, cita brani delle sue opere ma ammette di non sapere perché i romanzi dello «zio» Yan «assomiglino tutti a distese di tumuli funerari senza nome». Anche lo Yan personaggio è impotente al cospetto della deriva onirica orchestrata dallo Yan autore ma diventa ingranaggio di quella che, come in altri suoi romanzi (a partire dalla farsa Servire il popolo, 2005), è una densa struttura allegorica.
Una data offre qualche indizio: Il giorno in cui morì il sole è uscito a Taiwan (non in Cina...) nel 2015, tre anni dopo la nomina di Xi Jinping a segretario del Partito comunista, quando furoreggiava la retorica del «sogno cinese». Dunque all’ovvia metafora del sonno di Gaotian come sonno della ragione di un’intera nazione, quindi di una narcosi dei valori morali, sembra sommarsi un più diretto riferimento al potere e alla sua ideologia. Ancora: la collisione tra mondo dei vivi e mondo dei morti (vi ricorre anche lo Yu Hua de Il settimo giorno, 2013, che si apre proprio con un crematorio) porta in superficie contraddizioni e linee di rottura della società, mentre nell’immolazione finale si sovrappongono l’eroismo rivoluzionario di tanta letteratura edificante e l’ethos religioso di Yan, autore ateo che pure ha letto appassionatamente persino la Bibbia. Si torna, soprattutto, a un’immagine ricorrente della letteratura contemporanea cinese: quella del sangue, il sangue nel quale — denunciava nel 1919 Lu Xun — la Cina peggiore intinge stolidamente i propri mantou ,i panini cotti a vapore.
E Yan pare dire che la mente dell’uomo può vagare e perdersi, il corpo no. Le parole no. E dal corpo — vilipeso, arso — l’uomo rinasce. Superando, anche attraverso le parole, persino sé stesso.