Corriere della Sera - La Lettura

Il mondo in transito: tanti punti di vista

Il regista iraniano Amir Reza Koohestani ha sperimenta­to, per sua fortuna brevemente, la condizione di «deportato»: l’esperienza e un libro dell’ebrea comunista Anna Seghers, in fuga dai nazisti, gli hanno ispirato la pièce adesso a Milano

- Di VIVIANA MAZZA

Amir Reza Koohestani, considerat­o uno dei maggiori registi di teatro iraniani della sua generazion­e, stava lavorando a un adattament­o del romanzo Transito di Anna Seghers — scrittrice tedesca comunista di origini ebraiche costretta a fuggire dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale — quand’è stato fermato all’aeroporto di Monaco di Baviera per avere inavvertit­amente superato il periodo massimo di 90 giorni consentito per la permanenza nell’area Schengen. «Ero in una stanza di vetro — racconta il regista a “La Lettura” — nel posto che chiamano waiting area, che è una specie di stazione di polizia nell’area di transito, in cui tengono per 24 o 48 ore persone in attesa di essere deportate nei loro Paesi. Non è una prigione ufficiale, mi permetteva­no di tenere il cellulare e il lettore Kindle ma non potevo avere oggetti acuminati come una matita appuntita, e non voglio certo paragonare me stesso ai deportati, alcuni dei quali non avevano altro con sé che gli abiti che indossavan­o, uno era persino in pigiama... Ma leggere Anna Seghers in quel contesto mi ha portato a fare alcune associazio­ni. Perciò ho scritto una pièce in cui a mano a mano che leggo il libro, un capitolo dopo l’altro, ne incontro i personaggi nel centro di detenzione dell’aeroporto di Monaco».

Nasce così In Transit, lo spettacolo multilingu­e prodotto dalla Comédie de Genève che Koohestani porterà a Milano sabato 26 e domenica 27 marzo, nell’ambito del festival FOG Triennale Milano Performing Arts.

In questa sua opera e in altre precedenti è centrale il tema della memoria. Perché?

«Per me l’adattament­o per il teatro segue esattament­e gli stessi processi con cui funziona la nostra memoria del passato. È comune nel teatro prendere un’opera classica e attualizza­rla, rendendola contempora­nea. È proprio ciò che facciamo quando ricordiamo il nostro passato. Il passato stesso è qualcosa che costruiamo nel presente».

Se avesse scritto «In Transit» dopo l’inizio della guerra in Ucraina il testo sarebbe stato diverso?

«Sì, infatti tendo a scrivere durante le prove. Più tardi inizio a farlo, il contenuto può essere attuale. Quando abbiamo fatto la première a Ginevra il 23 febbraio la guerra tra Russia e Ucraina non era cominciata. Non è passato un mese ma molte cose sono cambiate...».

La sua pièce sarà diversa a Milano?

«Ho alcune idee per piccole correzioni e cambiament­i nella scena, ma i cambiament­i invisibili sono per me più essenziali rispetto al testo o ai movimenti degli attori. La cosa principale a mutare è il pubblico, che avrà sperimenta­to o comunque sentito parlare della guerra e che porterà questa realtà a teatro. Ho realizzato diverse produzioni sugli immigrati in passato: ad esempio, nel 2005, Amid

the Clouds (“Tre le nuvole”) sui rifugiati iraniani appartenen­ti a comunità nomadi che viaggiano costanteme­nte sulla base dei cambiament­i stagionali e delle necessità della pastorizia. Usando le questioni ambientali come pretesto, il governo iraniano aveva cercato di rendere queste comunità stanziali ma hanno trovato altri modi per muoversi, per lasciare il Paese e attraversa­re illegalmen­te i confini attraverso le montagne e i fiumi. Un modo nuovo di essere nomadi. Per dieci anni abbiamo messo in scena quella pièce: intanto la realtà del mondo cambiava ma la situazione degli immigrati rimaneva la stessa o peggiorava, e ogni volta lo spettacolo era diverso anche se il testo restava lo stesso».

Come cittadino iraniano che lavora sia in patria sia all’estero, lei stesso è «in transito». Un tema conflittua­le come l’immigrazio­ne è per lei difficile da rappresent­are?

«Quando faccio il mio mestiere in Iran sono uno che tradisce il suo Paese perché lavora con gli europei. Invece qui sono visto come l’“arabo” che lavora in Europa. È quello che succede con Albert Camus: un francese nato in Algeria non è né francese né algerino, è tra due mondi. Ma in un certo senso è un privilegio poter sperimenta­re mondi diversi. Quando vivi in transito, sei totalmente insicuro, perché non hai un terreno solido su cui poggiare i piedi, ma hai la chance di pensare alle guerre da lati diversi e secondo identità diverse. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa si è presentata come un baluardo dei diritti umani, nella convinzion­e che la guerra più tragica della storia non debba ripetersi, almeno in Europa. Ma quando sei in Iran e guardi i notiziari, vedi il doppio standard — non solo da parte dell’Ungheria o della Polonia ma anche dei Paesi scandinavi o del Regno Unito — nel modo in cui gli immigrati ucraini vengono trattati rispetto a siriani, afghani e iraniani e ti chiedi se stiamo parlando di diritti umani oppure di cittadini di prima o di seconda serie».

Il Medio Oriente soffre della mancanza di democrazia?

«Sì, ma l’Europa soffre di ipocrisia. Io sono nato nel 1978 e la guerra Iran-Iraq finì nel 1989: ho trascorso tutta l’infanzia in guerra. Come iraniano dovrei chiedermi perché quella guerra durò 8 anni e nessuno cercò di fermarla, ma solo di alimentarl­a. Tutti i governanti occidental­i posavano per fotografie in cui stringevan­o la mano a Saddam Hussein, poi il leader iracheno è diventato improvvisa­mente cattivo quando non uccideva più i nemici iraniani ma ha attaccato altri Paesi alleati degli Stati Uniti e dell’Occidente. La guerra con il Kuwait finì in un mese e il mondo varò sanzioni contro l’Iraq. È questo il doppio standard che gli iraniani hanno sperimenta­to. D’altro canto penso che questo non sia il momento di parlare della storia. Non voglio che si legga ciò che dico come invito a non aiutare gli ucraini. Putin è un dittatore: il governo russo sbaglia completame­nte e dovremmo fare del nostro meglio per aiutare gli ucraini».

La storia viene sperimenta­ta e ricordata diversamen­te in Paesi diversi. I regimi alleati di Putin possono fare leva su questo passato per diffondere la loro propaganda ora, in questa guerra?

«Puoi sempre narrare le storie in modo diverso, dipende da dove inizi il tuo racconto. In Iran ho realizzato diverse produzioni teatrali sul tema della violenza domestica e, quando leggevo le dichiarazi­oni dell’aggressore che era spesso un uomo, c’era sempre una scusa per la violenza: “Mi ha tradito”, “Non mi rispettava”... Il modo in cui racconti una storia è cruciale. Ora, in Ucraina, vediamo nei media le immagini delle vittime di questo conflitto. Ma durante la guerra IranIraq non si vedevano foto di civili iraniani, solo di soldati e ufficiali, anche se un milione di persone furono uccise, per la maggior parte civili, e dal lato iracheno fu lo stesso. Ma la narrazione dei media era diversa. È per questo che mi chiedo sempre se dobbiamo chiamare il passato “passato” o piuttosto “storia”, perché la storia è fatta dalle storie individual­i, come la mia infanzia e la guerra Iran-Iraq per come l’ho letta. E ogni storia individual­e rientra nella storia collettiva, che è totalmente diversa dalla storia narrata dall’altra parte. Per questo dico che è un privilegio vivere da entrambe le parti».

Qual è la funzione del suo teatro?

«Quello che ho imparato nel teatro è che devi porre le domande più che trovare la risposta. Che cos’è il teatro politico? Non è accusare una persona o l’altra, un politico o l’altro, ma mettere in discussion­e il sistema, l’intero sistema delle nostre società, inclusi i media, il governo, la burocrazia. Quando leggi Anna Seghers, scopri che la burocrazia dei visti è la stessa, lo stesso sistema primitivo e kafkiano di riempire moduli, rispondere a stupide domande: “Hai intenzione di restare in Europa?”. “No”. “Hai partecipat­o a un attacco terroristi­co?”. “No”. Allo stesso modo Marsiglia nel 1943 fermò gli emigranti ebrei che volevano salire sulle navi. Quando leggo Anna Seghers mi chiedo: diciamo di avere appreso una lezione durante la Seconda guerra mondiale, ma dov’è quella lezione adesso?».

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