Corriere della Sera - La Lettura
Un Cristo in gabbia per la Siria
Il Padiglione di Damasco propone un lavoro di una crocifissione nera con spiragli bianchi in un’antica voliera. «Dal Medio Oriente all’Ucraina siamo di fronte alla violenza pura: il mio è un Viaggio al termine della notte»
Apre squarci di riflessione, in equilibrio tra la zavorra corporea e il tentativo di volo (Gino De Dominicis è tra i suoi artisti preferiti), la mostra Viaggio al termine della notte di Lorenzo Puglisi, 50 anni, originario di Biella, allestita negli spazi del Padiglione della Repubblica araba siriana alla 59ª Biennale di Venezia. Ospite di un Paese governato da un presidente, Bashar al-Assad, il cui regime è stato accusato di avere inflitto torture ai prigionieri e utilizzato armi chimiche contro la popolazione durante la guerra civile: «Sono consapevole di ciò che accade in molte nazioni del mondo, le guerre e le violenze sono da sempre la regola... Per me essere in un padiglione della Biennale di Venezia è al contrario l’occasione per riportare l’attenzione sull’uomo e la tendenza mai sopita a essere prevaricatore fin dai tempi di Caino e Abele: una presa di coscienza necessaria, nella speranza che le nuove generazioni comprendano la totale inutilità di questa attitudine distruttiva».
Appena arrivato nell’Isola di San Servolo per progettare il suo intervento, nel parco che circonda il complesso architettonico Puglisi ha trovato una voliera alta tre metri, dentro la quale ha subito pensato di inserire una crocifissione. La rappresentazione trascende i codici dell’iconografia cristiana per svelare la tensione, ma al tempo stesso la complementarietà, tra le forze opposte che agitano l’animo umano.
L’idea di imprigionare l’immagine supera i confini della religione per inchiodare lo sguardo al presente: «Quella gabbia mi aspettava, è un simbolo della perdita di ricerca spirituale nella società occidentale che insegue soltanto il successo materiale. Nessuno si interroga sul perché della vita, semmai su dove andremo dopo la morte».
Se non fosse che la scelta del tema — superando il piano della dialettica interna all’uomo rivelatrice di un’indole inqueta e ambigua — assume un significato più ampio e dolente nel contesto in cui viene presentata. Il pensiero corre alle ferite del conflitto siriano che richiamano gli orrori del massacro di Bucha: «Scene che rivelano la natura dell’homo homini lupus... Da Damasco a Kiev, siamo di fronte alla violenza pura che si manifesta nella quotidianità». Potrebbe suonare come una sentenza irrevocabile, l’amara constatazione che a prevalere sono sempre gli istinti peggiori, ma ecco che uno spiraglio di luce irrompe nel titolo, citazione del romanzo di Louis-Ferdinand Céline: «Di solito scelgo con cura il filo conduttore delle mie mostre, non sono tipo da untitled (senza titolo, ndr), anzi direi che Con titolo di De Dominicis ci ha salvati... Volevo omaggiare Céline, l’incompiutezza che poi in realtà si risolve, per riagganciarmi al nostro tempo. Ma lui era disperato, io non vivo così: la notte esiste perché esiste il giorno. Vado al fondo dell’oscurità sapendo che lì è la luce».
L’estremizzazione del chiaroscuro, memore di Caravaggio e del patetismo barocco, traspare dalla rilettura di un topos come la crocifissione: dal fondo nero su tavola metallica affiorano le impronte materiche di testa, mani e piedi di un bianco quasi fluorescente. Una pittura per via di levare (molte le assonanze con il neoplatonismo michelangiolesco) che cancella l’inessenziale, facendo emergere dal buio le parti anatomiche più rilevanti ai fini del contatto interumano: «Lo sguardo, il modo di gesticolare sono i canali attraverso i quali l’individuo comunica la propria vitalità, il vortice emozionale che sente dentro di sé».
L’energia intrappolata nel corpo si sprigiona in lampi abbacinanti simili alle lettere dell’alfabeto Morse schivando il compiacimento estetico indotto dalla contemplazione per svelare in pochi segni la radiografia interiore. È come se l’autore, più della raffigurazione in sé, volesse catturare la sostanza emotiva che pulsa sotto l’involucro esterno: «Molti anni fa, quando partecipai a una collettiva, dipinsi il volto di Cristo che ricordava un po’ la Sindone. Credo vi sia una qualche reminiscenza nella Crocifissione... una sorta di resurrezione, di ritorno alla vita e visione oltre l’apparenza».
Il disfacimento dell’immagine ricorda la poetica di Francis Bacon in un rispecchiamento a parti rovesciate: «Per me è stato l’ultimo pittore in ordine di tempo. Avevo 12 anni quando notai un suo ritratto papale al telegiornale, che avrei ricollegato 25 anni dopo: non ne avevo memoria visiva, ma ricordavo lo choc... Per il mio ventisettesimo compleanno ero a Milano, in un periodo complicato della mia vita, e decisi di regalarmi un libro su Bacon. Il primo capitolo si intitolava A late starter (un esordiente tardivo, ndr )elo presi come un segnale di buon auspicio. È un grandissimo artista che lavora sulla disgregazione esistenziale. Il mio percorso è simile, alla ricerca di qualcosa che viene dall’interno. Le teste che dipingevo all’inizio erano slavate, i fondi rossi, verdoni... A mano a mano che qualcosa affiorava in me le teste si raddensavano con maggiore vitalità e lo sfondo diventava sempre più scuro, di un bruno Van Dyck». È la parabola dall’oscurità alla luce, dall’abisso alla catarsi; al contrario dello sfaldamento psichico dei volti di Bacon, rattrappiti in una smorfia di dolore o deformati dall’ibridazione di maschere che ne sfigurano i tratti.
Sebbene Puglisi avverta la fatica della lotta tra impulsi contrastanti, confida nella possibilità di riscattarsi: «A volte, per fortuna, oltre a riconoscere la natura volitiva, insofferente, piena dei vizi di cui siamo fatti, ho anche la facoltà di scegliere in quale direzione andare, a quale voce dare ascolto: è il grande dono della vita. Mi è rimasta impressa la scena di un film che mostra come nel momento della morte si è costretti a lasciare tutto. Di fronte a questa ineffabile verità ho compreso che è il caso di allenarsi a lasciare andare durante la vita, quando si è ancora in tempo... Provare a lasciar cadere una parte di sé, almeno qualche volta».