Corriere della Sera - La Lettura

L’opera al supernero nell’officina di Kapoor

- Dal nostro corrispond­ente a Londra LUIGI IPPOLITO

C’è un ponte ideale che da Benares conduce a Venezia. Lo scorge l’artista anglo-indiano Anish Kapoor, che arriva in Laguna con una grande retrospett­iva alle Gallerie dell’Accademia accompagna­ta da un’esposizion­e parallela a Palazzo Manfrin: «Venezia — dice Kapoor a “la Lettura” — ha questi due aspetti: il primo è il decadiment­o che è nelle sue acque, ma l’altro è quello delle acque materne, che nutrono e osservano». Cioè i due temi di morte e vita che si intreccian­o in tutta l’opera del celebrato scultore-pittore: «C’è un altro posto nel mondo che fa qualcosa di simile ed è Benares (oggi Varanasi, ndr): anch’essa è la città della morte e del dio Shiva, che è associato all’origine, all’inizio e alla fine. E a Benares scorrono le acque del Gange...».

Due anni fa Kapoor ha acquistato nella città lagunare Palazzo Manfrin, un complesso del Settecento che lui ha restaurato e che dal 2024 ospiterà la sua Fondazione: un progetto che sta ancora prendendo forma ma che porterà l’artista a risiedere per parte dell’anno a Venezia. «Mi sono innamorato — dice Kapoor — di questa città, dei suoi pittori, scultori e architetti. Spero di riuscire ad aggiungere qualcosa al vocabolari­o di colori e forme che è stato il dono di Venezia al mondo».

Ma c’è un colore in particolar­e che Kapoor svelerà nei giorni della Biennale: quel super-nero, o ultra-nero, che è da anni la sua ossessione. Le opere realizzate con questo materiale non sono mai state esposte prima e sono rimaste finora custodite nel suo studio londinese: ma in vista dell’appuntamen­to veneziano l’artista ci ha aperto le porte del suo laboratori­o segreto e si è prestato a fare da guida attraverso il suo labirinto di forme e colori. Un tour che, come lui stesso ammette, è al tempo stesso un viaggio nella sua mente e nel suo mondo interiore.

L’edificio è un insieme di capannoni ex industrial­i alla periferia sud di Londra: a mano a mano che l’attività di Kapoor si è allargata, lui ha finito per acquisire l’intera strada, che ora è diventata la sua officina dove operano decine di assistenti. E nella prima, vasta sala, che ospita alla rinfusa sculture dai richiami organici e dipinti dai colori vibranti, lavora il suo staff intento a piallare e dare forma agli oggetti. «Lo studio — spiega — è un posto di prove ed errori, di sperimenta­zioni, di possibilit­à più che di certezze. L’artista, a un livello alto, è il fool cosmico: a un livello più basso, solo un fesso. Questo è il rischio che dobbiamo correre, questo è il nostro compito: autorizzar­e il fatto a metà, il pensato a metà, il considerat­o a metà, la possibilit­à, lo sperimenta­le. Questo è assolutame­nte essenziale». Ma lo studio è anche il luogo dove l’opera giunge lentamente a maturazion­e: «Come regola generale sono dell’opinione che un’opera non dovrebbe lasciare lo studio almeno per 6 mesi dopo che è stata completata. Devo sedermi di fronte, guardarla, osservarla, capire se ha una voce o no. Se lasci trascorrer­e abbastanza tempo, gli occhi all’inizio annebbiati possono poi vedere se c’è qualcosa di buono».

Proseguend­o oltre, si entra in una specie di hangar che custodisce il lavoro più monumental­e che sarà esibito a Venezia, una specie di montagna rovesciata di due tonnellate e mezzo che è una concrezio

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