Corriere della Sera - La Lettura
Per entrare nella mente non partiamo dal cervello
Festeggia vent’anni d’attività il centro «per la ricerca sulla soggettività» fondato a Copenaghen da Dan Zahavi. Che con «la Lettura» rivendica la vitalità della tradizione fenomenologica: «Cioè il pensiero che punta sulla persona e sulla sua esperienza
Edith Stein non trattiene l’entusiasmo. «A Gottinga — scrive nei suoi diari — non si fa altro che filosofare, di giorno e di notte, per strada, nei caffè, ovunque». È una studentessa di appena vent’anni. Ha raggiunto la città nel cuore della Germania per seguire le lezioni di un maestro schivo che è già una leggenda, l’inventore della fenomenologia Edmund Husserl. Doveva fermarsi pochi mesi, resterà a lungo e diventerà sua assistente. Ma che cosa c’era di così trascinante in questa nuova filosofia capace di scaldare i cuori e accendere le menti di tanti giovani? Abbiamo parlato di fenomenologia con Dan Zahavi, fondatore e direttore del Center for Subjectivity Research di Copenaghen, centro di eccellenza che sta rilanciando con vigore questa grande tradizione filosofica, nuovamente apprezzata dalle scienze empiriche dopo anni di sostanziale indifferenza.
«La fenomenologia ha introdotto un nuovo modo di fare filosofia — dice Zahavi — capace di mettersi in relazione con la nostra esperienza quotidiana. Raramente una svolta di questo tipo ha avuto precedenti nella storia del pensiero».
Intanto: che cos’è la fenomenologia?
«È uno dei movimenti filosofici più influenti del XX secolo, che mette in primo piano il punto di vista del soggetto, il vissuto in prima persona. Perché è possibile spiegare la mente ma senza comprenderla, e se vogliamo comprenderla dobbiamo tener conto del ruolo svolto dal soggetto incarnato, che percepisce, pensa, sente, la persona nella sua totalità».
Il centro di ricerca che dirige a Copenaghen compie nel 2022 vent’anni. Può raccontarci com’è nato?
«Ero appena tornato dopo un periodo di studio all’estero. Volevo restare in Danimarca ma non avevo prospettive di un lavoro fisso e stavo prendendo in considerazione alcune posizioni che si erano aperte alla New School di New York e alla McGill University a Montréal, in Canada.
In quel momento la Fondazione nazionale danese per la ricerca lanciò un appello per l’avviamento di centri di eccellenza rivolto a persone impegnate in ambito umanistico. Decisi di candidarmi. Avevo 33 anni e nessuna esperienza nella direzione di attività di ricerca, così pensai che se la mia candidatura voleva avere qualche possibilità di successo, dovevo trovare degli alleati».
Come andò?
«Collaboravo da tempo con uno psichiatra, Josef Parnas. Conoscevo Arne Grøn, un importante studioso di Kierkegaard e Hegel. Li coinvolsi entrambi. Il progetto che presentammo era quello del Center for Subjectivity Research».
Perché «ricerca soggettiva»?
«Da Cartesio, e ancora di più da Kant, la soggettività è uno dei temi principali della filosofia. Nel XX secolo ha trovato nella fenomenologia il suo sviluppo più naturale. Grøn, Parnas e io condividevamo la convinzione che ci fossero preziose risorse in questa tradizione e che la ricerca sulla mente non poteva ignorarle. Fummo sorpresi che la nostra candidatura avesse avuto successo. Ricevetti la comunicazione il giorno del mio trentaquattresimo compleanno. Fu un regalo abbastanza speciale».
Come si svolge l’attività del centro?
«Siamo circa 15-20 persone, alcuni fissi altri che arrivano per periodi di studio da ogni parte del mondo. Organizziamo un seminario settimanale dove ognuno può presentare i suoi lavori e discuterli. In questi vent’anni abbiamo messo in piedi 128 tra workshop e conferenze. Teniamo gruppi di lettura ogni settimana e una scuola estiva in fenomenologia e filosofia della mente, con un centinaio tra studenti che stanno facendo il dottorato e giovani ricercatori».
Qual è la sua «mission»?
«Facilitare il dialogo tra la ricerca scientifica e la tradizione filosofica».
E com’è cambiata la considerazione della fenomenologia in questi ultimi vent’anni?
«Molti fenomenologi sono usciti dalla trincea in cui si muovevano fino a poco tempo fa, quando ciò che contava era solo l’appartenenza, se eri heideggeriano, husserliano, merleau-pontiano. Invece di enfatizzare i punti in comune, vincevano le differenze. Penso che questo schema sia saltato: la fenomenologia è oggi al centro di una vera rinascita».
Uno dei primi lavori ad applicare la fenomenologia allo studio della mente è stato «The Embodied Mind» del biologo e neuroscienziato cileno Francisco Varela (1946-2001, il titolo dell’edizione italiana è «La via di mezzo della conoscenza», Feltrinelli, 1992, ndr). Che ruolo hanno avuto i suoi studi nella rinascita della fenomenologia?
«Il suo libro del 1991 (firmato con Eleanor Rosch ed Evan Thompson, ndr )èun classico e non c’è dubbio che l’interesse delle scienze cognitive per la fenomenologia sia stato avviato dal suo lavoro. Varela ha fatto capire che le scienze cognitive dovevano accogliere le idee della fenomenologia se volevano affrontare in maniera convincente il tema della natura della coscienza. Una delle sue proposte è stata di allenare “soggetti sperimentali” a osservare con più attenzione le esperienze nel momento in cui si manifestano, portando in seguito il vissuto allo studio delle neuroscienze. Da allora la ricerca è andata avanti e vorrei ricordare almeno tre sviluppi. Il lavoro di Evan Thompson. Mi riferisco in particolare al suo libro Mind in life (Harvard University Press, 2010, ndr) che rappresenta una delle più sofisticate esplorazioni del rapporto tra naturalismo e fenomenologia. Sono importanti gli studi di Claire Petitmengin, che ha fatto il dottorato con Varela ed è andata avanti affinando ancora di più alcune sue idee e sviluppando quella che oggi è chiamata microfenomenologia, un metodo che mira a raccogliere descrizioni molto fini del nostro vissuto. C’è poi il lavoro mio e di Shaun Gallagher, confluito ne La mente fenomenologica (Raffaello Cortina, 2009, ndr)».
Qual è il contributo della fenomenologia nella ricerca, diagnosi e trattamento delle malattie mentali?
«L’impatto della fenomenologia sulla psichiatria è stato enorme. Già Karl Jaspers insistette sul fatto che la psichiatria avrebbe dovuto dedicarsi attentamente alla prospettiva in prima persona del paziente e che avrebbe potuto trarre profitto dall’analisi fenomenologica. Questa posizione è stata poi sviluppata da diverse generazioni di psichiatri e oggi è anch’essa al centro di una vera rinascita».
Autori da tenere d’occhio?
«La lista sarebbe lunga, segnalo alcuni nomi legati al centro: Sara Heinämaa, Alva Noë, Thomas Fuchs, Sophie Loidolt».
Libri accessibili anche a non filosofi o studiosi di scienze cognitive?
Consiglierei Follia e modernità di Louis Sass (Raffaello Cortina, 2013, ndr), un libro davvero affascinante. Guardando al passato, un libro che è stato molto influente nella mia formazione è Il mondo interpersonale del bambino di Daniel Stern (Bollati Boringhieri, 1993, ndr)».