Corriere della Sera - La Lettura

Autobiogra­fia di un romanzo

- Di IDA BOZZI

Normalment­e c’è un «io narrante» umano o un narratore onniscient­e in terza persona. Difficile che si scappi. Invece l’«io narrante» di è una novella — «La ribellione» di — infilata nello zaino di una ragazza newyorches­e che, cent’anni dopo, la riporta in un’Europa di nuovo devastata da guerre. Ieri la Jugoslavia, oggi l’Ucraina

In genere il narratore in un romanzo è umano: il ragazzo in formazione di cui il lettore segue le avventure, la protagonis­ta che cerca le sue radici o il detective che racconta il nuovo delitto. Oppure è un osservator­e onniscient­e che usa la terza persona per raccontare la realtà : ad esempio, «Solenne e paffuto, Buck Mulligan sbucò dall’alto delle scale», come recita l’incipit dell’Ulisse di Joyce. Ma che cosa succede quando l’io narrante di un romanzo è a sua volta un libro? L’espediente può sembrare uno scarto minimo dalla convenzion­e, un gioco narrativo. Non è così se l’io narrante è un minuscolo immortale, un piccolo classico, uno di quei supereroi che hanno come unico superpoter­e la trama che narrano a chiunque apra le loro pagine, in qualsiasi epoca, mostrando le tremende ricorrenze della storia. Un libro più umano che mai.

Il libro che dice «io» nel XXI secolo, è una novella di Joseph Roth, La ribellione, scritta nel 1924, ed è il narratore nonché protagonis­ta del romanzo dell’irlandese Hugo Hamilton, Tra le pagine, pubblicato da Einaudi Stile libero. Quel che ha di speciale La ribellione nel libro di Hamilton è che si presenta e parla come una persona: porta in sé la trama scritta tra le due guerre da Roth mentre la Mitteleuro­pa si riempiva di reduci della Grande guerra, mutilati, feriti e abbandonat­i alla miseria. La storia di un ex soldato che ha perso una gamba e riceve in risarcimen­to una patente per suonare l’organetto in pubblico, poco più che la carità: una vicenda dolente e triste. Ma questa non è la trama che La ribellione, nel libro di Hamilton, intende raccontarc­i. Il libro/io narrante, infatti, è un protagonis­ta che ci parla dallo zaino di una ragazza moderna, una giovane artista, Lena Knecht, che si sta imbarcando all’aereoporto di New York oggi, per tornare ai luoghi in cui quel libriccino è stato scritto «quasi cento anni fa», in Germania.

Eccitato e felice come un vero viaggiator­e, il tascabile gualcito nella borsa parla da esperto di fughe e di odissee: egli stesso è sfuggito per un soffio al rogo dei libri del 1933 cui i nazisti condannaro­no tutti i libri «contrari allo spirito tedesco». Specie quelli di un autore di origini ebraiche come il «suo» Joseph Roth (nato a Brody, allora impero absburgico, oggi Ucraina) o come Stefan Zweig, l’amico che sostenne Roth durante l’esilio, ma anche i libri di Heinrich Mann, fratello di Thomas, i libri del marxista Bertolt Brecht, o classici per bambini come Emilio e i detective di Erich Kästner. Lui, La ribellione , si è salvato solo perché il suo proprietar­io, il professore ebreo David Glückstein, lo ha affidato a un allievo fidato, Dieter Knecht, il nonno di Lena. Ma è un libro abituato alle fughe, ci consola il narratore, perché anche Joseph Roth, il suo autore, era uno che fuggì tutta la vita per sopravvive­re.

Così comincia, ed è solo l’inizio, il romanzo di Hamilton, che segue tre odissee. La prima è quella del tascabile nascosto tra le copertine di altri libri, per quasi un secolo esiliato, rubato, ritrovato, da Berlino a New York e ritorno. Poi c’è la vicenda di Lena, che cerca l’ispirazion­e in Europa dopo che la sua vena artistica si è forse asciugata in una vita normale in America. E infine la biografia di Joseph Roth, genio esule che non trovò pace nemmeno nel grande amore e morì alcolizzat­o e in miseria.

«Quello che mi interessav­a in Joseph Roth — spiega a “la Lettura” Hugo Hamilton, dublinese, classe 1953, a sua volta figlio di un’emigrata tedesca e di un nazionalis­ta irlandese, e vincitore del Prix

Femina Étranger 2004 con il memoir Il cane che abbaiava alle onde (Fazi, 2004) — era la sua vita di rifugiato, di scrittore in fuga. Viveva con una valigia, per lo più alloggiand­o in hotel, spesso vicino alla stazione ferroviari­a, “il più vicino possibile alle arterie di partenza”. Vita dura, fuggire dalla Germania nazista e morire infine alcolizzat­o a Parigi. La sua fuga sembra riecheggia­re la storia di tanti rifugiati di oggi. Ciò ne fa una gran figura di cui scrivere, con così tanti echi nel nostro tempo. Al centro del mio romanzo c’è la tragica storia d’amore tra Roth e sua moglie Friederike: le fu diagnostic­ata la schizofren­ia, fu ricoverata in vari istituti psichiatri­ci. Anche quando era irrecupera­bile, Roth continuò a credere che potesse guarire: tanto che, sotto falso nome, tornò nella Germania nazista per farle visita nella cella imbottita».

Nei tre intrecci del libro, la guerra e i rifugiati sono protagonis­ti: oltre alla vicenda di Roth, si segue la breve vita dell’ebreo Glückstein nelle mani dei nazisti, e nella trama ambientata ai nostri giorni entrano le guerre balcaniche e gli orrori ceceni: nell’ambiente degli artisti berlinesi, Lena infatti incontra due giovani, fratello e sorella, fuggiti da piccoli dal Kosovo in guerra. La loro tragedia si mescola nell’immaginari­o di chi legge alle immagini dei bimbi in fuga oggi da Kiev: buca il tempo, come solo un libro sa fare, e rende ancora più umano il messaggio che La ribellione, infilato nello zaino, seguita a portare nel mondo. Anche la mappa di un misterioso tesoro disegnata tra le pagine si rivela alla fine un messaggio di speranza per chi crede ancora nella forza dei libri.

Spiega Hamilton: «Mentre scrivevo il romanzo, ho sentito che la sua storia sembrava coincidere con la follia che si impadroniv­a dell’Europa: il suonatore di organetto vittima di un incidente razzista che manda la sua vita su un sentiero discendent­e. Un momento della storia che Roth così ha descritto al suo amico Stefan Zweig: “L’inferno sta arrivando”».

Vengono i brividi, leggendo le pagine in cui il tascabile incontra gli altri libri censurati in un secolo: tra loro, quelli di Anna Politkovsk­aja, cui Hamilton dedica brani di straziante attualità. Senza bisogno di lezioni di storia, ma solo visitando uno scaffale di «colleghi libri» in esilio, il narratore di carta diventa un testimone di odii e nazionalis­mi di ieri e di oggi. Storie di «patrie» pretese o negate che Hamilton ben conosce. Spiega: «L’intero concetto di nazionalis­mo era qualcosa con cui sono cresciuto, da bambino tedescoirl­andese a Dublino. Il nazionalis­mo brutale che mia madre tedesca ha vissuto negli anni del nazismo, contro il nazionalis­mo liberatori­o cui appartenev­a mio padre, che ha portato alla libertà irlandese». Il libro di Roth diventa testimonia­nza di 100 anni di storia, conclude, con echi che ricadono nel presente: «Per me scrittore, il modo perfetto per trovare somiglianz­e tra l’ascesa del nazionalis­mo in Germania e simili voci che emergono nel nostro tempo. Ad esempio, nel conflitto in Ucraina, la Russia sotto Putin sembra regredire in un’illusione di grandezza nel passato dell’impero russo; l’Ucraina sembra appartener­e a una forma più progressis­ta, una visione del futuro, il desiderio di appartener­e a un’Unione europea democratic­a e prospera. È straziante vedere antichi nazionalis­mi che ora portano alla guerra, dove la nuova dittatura russa ha così paura di democrazia e libertà da ricorrere alla guerra di aggression­e del XX secolo».

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