Corriere della Sera - La Lettura
Una Spoon River di vivi in fondo al Nordest
Un reticolo di destini e vicende personali nell’arco di sessant’anni a partire da una valle del Veneto: orchestra aspettative, delusioni, tragedie, affidando il titolo a una citazione (rovesciata) da Edgar Lee Masters
In un romanzo che tesse le storie di tanti personaggi di una famiglia per darne memoria, coprendo un arco di sessant’anni, colpisce che l’unica occorrenza della parola «passato» arrivi verso la fine, a spiegare con esattezza quanto si è letto. Accade nell’ottimo e intenso terzo romanzo di Ginevra Lamberti, Tutti dormono nella valle, un titolo che è omaggio e citazione invertita, in termini spaziali, del «Tutti, tutti, dormono sulla collina» di Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River.
La frase, che riguarda l’ultima protagonista del libro, è questa: «C’è una storia per l’inizio e una storia per la fine. Le scegliamo anche dopo molto tempo che i fatti sono accaduti, modificando il passato, per dare un ordine alle cose». Quelle «cose» sono le vicende di un ampio gruppo di personaggi, i cui legami sono illustrati da uno schema in apertura, di cui sappiamo solo i nomi: «Non hanno cognomi, perché i cognomi vogliono dire che appartieni a qualcuno».
La vicenda si apre nel 1974, con una diciassettenne che rientra a casa dopo una fuga. Lei è Costanza e torna alla «casa gialla» che si trova «in una valle stretta, da qualche parte nel Veneto nord-orientale». La aspettano i genitori: il padre Tiziano e la madre Augusta che non capiscono i comportamenti della figlia. Arrivano da un altro tempo e cultura in cui già nel frammento successivo, ambientato nel 1963 e intitolato Torrenti, ci immergiamo.
Tutto il movimento del romanzo, diviso in quattro parti, è costruito per brevi tratti narrativi titolati e datati autonomamente: alcuni isolano un momento a sé, altri ritornano a dare un ritmo continuo, un arco narrativo più ampio all’evoluzione della vita di un personaggio. Mentre il lettore conosce Costanza, in un montaggio alternato incontra anche Augusta, e i due destini si legano con una forza ben diversa dall’andare cronologico. Seguendo Augusta, si arriva attraverso flashback anche agli anni Trenta, quando minorenne accudiva a Milano una bimba per spedire i soldi a casa in valle mentre con l’inquieta Costanza — che si chiama come quella bambina — si parte dai Settanta per arrivare agli Zero.
Di mezzo, c’è un mondo che cambia nel quotidiano, non attraverso grandi eventi, ma con la voglia di vagabondare, uscire dalla valle e con l’arrivo progressivo della droga. Ci sono i viaggi nelle città e al mare campando di espedienti con le amiche Livia, Mimì e Fiorella, muovendosi in autostop e sognando di scappare sempre più lontano perché, come si dice Costanza rispetto a dov’è nata: «Se ogni cosa è migliore a un solo chilometro di distanza allora forse a dieci chilometri, a mille chilometri, sarà tutta una festa».
La festa verrà interrotta dall’arrivo dell’eroina, non direttamente nella vita di Costanza, ma in quella dell’uomo di cui si innamora: il romano Claudio, al centro della terza parte del romanzo. Claudio che «era bravissimo a inventare mondi e nascondere oggetti» e che già per la sua famiglia «non sta a posto». Claudio che rivive nel racconto colloquiale di Tappo, un compagno di avventure, intitolato
Specchietti (1970 - 1978) e che ripercorre il passaggio dagli anni in cui erano «il Nucleo-Scavalco» ai grandi concerti, quelli dei viaggi a Christiania in Danimarca a farsi di acidi, al momento in cui qualcosa cambia perché si consuma eroina e perché Claudio inizia a viaggiare in India per trovarla e trafficarla.
Tra scomparse e riapparizioni, la relazione con Costanza prosegue finché lui non viene messo nella comunità più discussa e celebre — e mai nominata — d’Italia dove domina il Grande Capo. Le pagine ambientate in quel luogo, come in Disossare (1983), sono tra le più belle del libro, senza dimenticare che in tutta la compagine, diverse volte l’abilità e varietà stilistica dell’autrice sa modularne il ritmo. Dopo qualche tempo, anche Costanza potrà entrare nella comunità per stare vicino a Claudio ed è lì che nasce nel 1985 l’ultima protagonista del romanzo: Gaia, al centro della quarta parte.
È un nome segnale per l’autrice, lo stesso della voce narrante del suo primo romanzo, La questione più che altro (2015), e che svela la radice in buona parte autobiografica di quest’ultimo. Finita l’esperienza di San Patrignano, tra cambi di case, luoghi e lavori per i genitori, non sarà facile per Gaia orientarsi in quei rapporti, tra un padre reduce mai stabile del tutto e una madre che sceglierà un modo tutto suo, ispirato alla giovinezza perduta, per fare i conti con la figlia. Gaia, da sola, in pagine toccanti, trova poi il suo passo per entrare nel mondo.
In bilico tra racconto autobiografico e finzione, il modo in cui l’autrice riesce a «dare ordine» al caleidoscopio temporale della storia e alla coralità di personaggi e governarlo con naturalezza, è notevole e segno di una maturità poetica rara. Il passaggio alla terza persona, dopo la prima che dominava l’esordio e in parte anche il secondo Perché comincio dalla fine (2019), brillante indagine sulla morte, è riuscito e articolato. Se nel 2015 criticavamo il fatto che la storia raccontata fosse troppo sua e privata, oggi ammettiamo l’errore o, anzi meglio, ammiriamo la forza con cui Lamberti è riuscita ad attraversare una vicenda anche personale rendendola un affresco coinvolgente e sentito, mai scontato. Il salto di qualità sta sia nella complessità di costruzione del romanzo sia nel combattuto amore per i personaggi e nel rendere la loro indipendenza nel mondo. Sta, insomma, nella letteratura.