Corriere della Sera - La Lettura
Le isole non sono isolate ma rimangono isolabili
Geografie Le «terre circondate dal mare», ci ricorda Valerio Calzolaio, sono state a lungo utilizzate come luoghi di confino o di reclusione. Alcune sono state popolate proprio da forzati. Oggi è più raro che ospitino carceri, ma in diversi casi vengono
Negli ultimi giorni del 2021 molti giornali diedero la notizia che soltanto dieci Paesi al mondo non avevano registrato neppure un caso di Covid19. Con l’eccezione della Corea del Nord e del Turkmenistan (su cui aleggiavano non pochi dubbi), tutti gli altri erano Stati insulari del Pacifico, a cui si aggiungeva Sant’Elena, una remota isola britannica nell’Oceano atlantico. Come hanno fatto queste isole a rimanere al riparo dall’impetuosa corrente del virus? La risposta appariva scontata, anzi, già data: si tratta per l’appunto di isole e le isole, si sa, sono tendenzialmente isolate.
Non tutti concordano con questa visione. «Prendiamo — scrive Franciscu Sedda dell’Università di Cagliari — la definizione dell’isola come “terra circondata dal mare”. Si tratta di una definizione povera, perché non dice nulla della condizione di connessione/sconnessione che la presenza del mare rappresenta per una specifica isola, per una data cultura o collettività isolana». In riferimento alla presenza umana, in effetti, le isole sono «isolate» soprattutto nell’immaginario continentale. In realtà il mare è stato per millenni una via di comunicazione e trasporto ben più agevole delle asperità terrestri e da quando navi a motore solcano i mari e aerei attraversano i cieli, l’isolamento è divenuto ancora più relativo. Più che isolate, le isole, soprattutto quelle di piccole dimensioni, sono «isolabili». È quello che è avvenuto col Covid: bloccando partenze e arrivi, navi e aerei, gli abitanti di Tuvalu, Niue, Pitcairn e altre isole del Pacifico hanno fermato il virus.
È proprio sull’isolabilità delle isole che lavora un recente e originale libro di Valerio Calzolaio, Isole carcere (Edizioni Gruppo Abele). Gorgona, Asinara, Pianosa, Ventotene, l’Elba: chi di noi non si è imbattuto nei suoi viaggi reali o immaginari in un’isola trasformata in carcere o in soggiorno obbligato? La ricerca di Calzolaio ha un grande merito: componendo il puzzle delle principali isole carcere del mondo, oltre 270 secondo un conteggio provvisorio e discutibile a seconda che si condividano o meno i criteri utilizzati (dimensioni, distanza dalla terraferma, convivenza con popolazioni insulari ecc.), vien fuori un quadro sorprendente, che dà conto di pagine molto importanti nella storia dell’umanità e del potere.
L’isolabilità delle «terre circondate dal mare» è stata sfruttata fin dai tempi più antichi per relegarvi ospiti indesiderati come oppositori politici (l’ostracismo greco), avversari economici, criminali comuni, autori di reati contro il «costume», appestati o presunti tali. I Romani realizzarono le prime strutture detentive, inventando la relegatio ad insulam :ne fecero le spese Giulia, figlia di Augusto deportata a Ventotene e il suo amante Sempronio Gracco, a cui toccò Cercina (oggi Tunisia). Le Tremiti, tristemente famose anche per il confino a cui i fascisti destinarono gli omosessuali, furono fin dall’epoca romana un affollato luogo di detenzione. Nel Medioevo, il papato romano usava allo scopo due isole lacustri, Martana e Bisentina, nel lago di Bolsena.
Quella delineata da Calzolaio a colpi di pennello che richiederebbero ora un più consistente scavo storico, politico ed antropologico, è la narrazione del divenire e delle trasformazioni delle isole carcere. La detenzione è stata infatti a seconda di tempi e dei luoghi confino, libertà limitata, semplice obbligo di residenza oppure chiusura in carceri costruiti ad hoc e ancora lavoro forzato. La modernità ha moltiplicato le tipologie: l’isola carcere è stata per esempio uno straordinario mezzo di colonizzazione. La «scoperta» dell’Australia sul finire del Settecento coincise con il divieto delle vecchie colonie americane di accogliere indesiderati criminali. Come svuotare carceri sempre più affollate? Trasformando i detenuti in coloni! Oltre 300 mila carcerati contribuirono con il loro lavoro a costruire le prime infrastrutture di Sydney. Non fu diverso per la vicina Nuova Caledonia: tra la metà e la fine dell’Ottocento la Francia deportò oltre 20 mila detenuti (criminali comuni, oppositori politici, berberi d’Algeria, communards) che, una volta liberati dalle carceri, costruirono strade e acquedotti, abbatterono mangrovie e prosciugarono paludi divenendo i primi abitanti bianchi dell’arcipelago.
E oggi? Alcune (poche) delle 270 isole censite da Calzolaio ospitano ancora carceri. Qualcuna alberga centri «modello» per il recupero attraverso il lavoro agricolo e programmi di convivenza finalizzati al ritorno pieno alla vita sociale. Altre nascondono le strutture più disumane che la storia abbia conosciuto (sovraffollamento, fame, violenze). L’isolabilità, insieme al «naturale» isolamento in cui altre specie viventi (animali terrestri, piante, coralli) abitano le isole, fanno di queste ultime dei paradisi di biodiversità da conservare. È il caso dell’Asinara: l’isola che ancora «custodì» i brigatisti rossi e Totò Riina, l’isola in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si auto-isolarono per la stesura dell’ordinanza per il rinvio a giudizio nel maxi-processo, è oggi un paradiso di biodiversità e un centro simbolico di memorie storiche del nostro Paese, valorizzato per un turismo di qualità.
Purtroppo però, altrove, non c’è solo la valorizzazione in ballo: altre forme di detenzione e confino emergono nella storia delle isole. Lampedusa e Lesbo nel Mediterraneo; Manus e Nauru nel Pacifico. La storia delle isole carcere si ammanta purtroppo di una nuova pagina, nel momento in cui in esse vengono dirottati, concentrati, detenuti quei migranti indesiderati che solcano i mari. Gli oceani non sono affatto barriere e le isole non sono affatto di per sé isolate: è il nostro immaginario, sono le scelte politiche che troncano le relazioni.