Corriere della Sera - La Lettura
Georgia O’Keeffe Ho visto un fiore
Mitologie La Fondazione Beyeler di Basilea propone 85 opere di un’icona dell’arte americana, un’artista che ha unito la sensualità, l’eleganza sofisticata e una potente letteratura della natura
« Ognuno ha molte associazioni con un fiore. Alzi la mano per toccarlo, o ti pieghi in avanti per annusarlo, o magari lo tocchi con le labbra quasi senza pensarci, o lo dai a qualcuno per compiacerlo. Ma raramente ci si prende il tempo per vedere davvero un fiore. Ho dipinto ciò che ogni fiore è per me e l’ho dipinto abbastanza grande in modo che gli altri possano vedere quello che vedo io»: queste parole di Georgia O’Keeffe possono rappresentare la chiave di lettura della sua pittura, un modo di vedere in cui la spontanea sensualità si coniuga con una visione poetica della natura.
Davvero tra le sale della Fondazione Beyeler di Basilea viene spontaneo chiedersi: che ci vedeva in un fiore Georgia O’Keeffe? Verrebbe da dire subito citando Courbet: L’origine du monde, naturalmente. Comunque sia, molti suoi dipinti sono pervasi da un erotismo latente (talvolta esplicito) in questa mostra raffinata e importante (con 85 opere) dove la grande pittura dell’artista americana emerge nella sua letteratura complessa, tra eleganza sofisticata e potente narrazione naturalistica. Una mostra in cui si coglie l’evoluzione cronologica della sua identità, anche quella meno conosciuta (se non nascosta) in cui silenziosamente si sottende a quell’infanzia a tratti veramente difficile e dolorosa in cui si celava la vitale necessità di trasformazione, quel vigoroso bisogno di abbandonare le origini per trovare una nuova libertà. Da qui è nata quella che oggi è considerata l’icona dell’arte moderna americana.
È la biografia, oltre alla pittura, a raccontare l’identità di questa ragazza del Wisconsin alla quale già a 11 anni viene riconosciuto un precoce talento per la pittura. Un talento affiorato grazie a lezioni d’arte consumate nella sua umile casa. Ed è sempre la sua biografia a raccontarci come viene scoperta da un grande fotografo di nome Alfred Stieglitz. Sarà proprio Stieglitz, straordinario intellettuale e artista (aveva un’importante galle
ria a New York, crocevia culturale della città) a esporre per la prima volta, nel 1916, i suoi disegni in una mostra collettiva. Stieglitz la introduce negli ambienti dell’avanguardia newyorchese, tra cui molti modernisti americani, e già l’anno dopo le dedica una mostra personale.
Così, da subito, cresce un amore intenso, passionale, costruito sulla complicità. Ma è bene chiarirlo: Stieglitz s’innamora prima della sua pittura che di lei. È un amore nato sulla stima, innanzitutto. Nel 1924 si sposano e il rapporto (a tratti molto tormentato) continuerà, anche se a distanza, sino alla morte di Stieglitz, nel 1946, anno in cui Georgia O’Keeffe viene celebrata da una grande retrospettiva al MoMa di New York.
Certo, in un costante confine tra figurazione e astrazione, le sue opere ci parlano di fiori, di montagne, di teste di animali scarnificate, bianche ossa fluttuanti e metafisiche forme astratte. Il suo mondo è questo: una Natura evocata dai versi di Emily Dickinson:
Natura è tutto ciò che noi vediamo: il colle, il pomeriggio, lo scoiattolo
l’eclissi, il calabrone.
O meglio, la natura è il paradiso.
E il paradiso di Georgia O’Keeffe è una coppia di papaveri rossi come un universo infinito in cui perdersi come nell’Oriental Poppies, dipinto del 1927 in cui la forza dei due fiori appare come un mare rosso in cui immergersi, oppure nel potente Jack-in-the-Pulpit, del 1930, in cui vediamo un fiore, ritratto, diciamo così, usando un linguaggio fotografico come fosse un close
up, un ingrandimento tale che il dettaglio di una tra le piante più diffuse del Nord-America diventa quasi una visione astratta. Non dimentichiamo che in quegli anni emergeva la cosiddetta «Straight Photography»: la fotografia diretta, teorizzata la prima volta proprio nella rivista di Stieglitz, «Camera Work». È facile immaginare come lo sguardo della giovane O’Keefe possa essere stato condizionato da quel modello di visione.
La spazialità gioca un ruolo importante in questo dipinto. Il notevole ingrandimento, la prospettiva insolita e gli estremi contrasti di luce e buio si combinano per offuscare il rapporto tra superficie e spazio, primo piano e sfondo, cavità e rigonfiamenti. E anche qui, lo «spadice», al centro, che si impone con la sua forma di asta cilindrica, ci porta inevitabilmente a una evocazione sessuale. D’altronde, si sa, i fiori sono (anche) organi di riproduzione e da sempre gli artisti li hanno interpretati naturalmente (anche) in una chiave metaforica.
Ma la cosa che più conta è sottolineare come Georgia O’Keeffe sia davvero la pioniera della pittura americana, una sorta di mistica sacerdotessa, un po’ sciamana, un po’ guida spirituale, un po’ guru del deserto, sicuramente riconosciuta come la più grande artista capace di interpretare il rapporto tra essere umano e Natura.
Ma attenzione, lo ricordava sorridendo lo stesso Sam Keller, direttore della fondazione Beyeler, che con Theodora Vischer ha curato la mostra: «Non pensiamola come un’eremita. Amava la tecnologia più avanzata e amava i viaggi. Viveva certamente isolata al confine con il deserto messicano, ma dimostrava la sua complessità anche guardando quello che aveva nella sua semplice e isolata casa: aveva il frigorifero e lo stereo di ultima generazione. Studiava la cultura Navaho ma viaggiava in Europa. Non c’è dubbio che la sua sia stata una personalità complessa, a tratti difficile. E in qualche modo la mostra, tracciando il percorso della sua vita, lo mette in luce».
La mostra si apre infatti con uno sguardo ai primi lavori di O’Keeffe: disegni a carboncino come Early Abstraction, 1915, presentati accanto a una selezione di acquerelli di piccolo formato densi di colore e luce. Nelle prime sale troviamo i dipinti Blue and Green Music, 1919-1921, che rivelano come l’artista si sia confrontata con l’astrazione. In fondo, l’arte di O’Keeffe è caratterizzata proprio dalla giustapposizione di pittura figurativa e pittura astratta.
Come sottolinea Hunter Drohojowska-Philp, che ha scritto un’intensa biografia dell’artista (Full Bloom. Life and Art of Georgia O’Keeffe, pubblicata in italia da Johan & Levi Editore nel 2010 con il titolo Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana), «Georgia O’Keeffe potrebbe concorrere al titolo di artista più famosa e meno compresa del XX secolo. È stata l’incarnazione dell’antica massima dei direttori di giornale: se il mito è più emozionante della realtà, pubblichiamo il mito».
Certo, è davvero difficile tracciare un ritratto fedele di un’artista che unisce un mondo di grande talento e indubbia forza espressiva e poetica, ma avvolto dai demoni del passato. Come sempre sono le opere che devono parlare. E i suoi dipinti ci raccontano di una donna con un carattere di ferro, alimentato e difeso sino ai suoi 98 anni, quando se n’è andata lasciando l’eredità di una pittura potente e unica. In un suo testo, scritto nella sua casa di Abiquiú, nel New Mexico («Da qui vedo la strada per Santa Fe e per il mondo») è lei stessa a lasciare la soluzione per intendere il senso del suo dipingere: «Natura è tutto quello che sappiamo senza avere la capacità di dirlo, tanto impotente è la nostra sapienza a confronto della sua semplicità».