Corriere della Sera - La Lettura
Per cantare l’anima d’Irlanda servono poesia e punk rock
Nel loro nuovo album (ma prima di fare dischi scrivevano versi) i Fontaines D.C.
(dove D.C. sta per Dublin City) hanno raccontato il disagio di «chi si sente un outsider nella società britannica».
«La Lettura» ha incontrato Grian Chatten, il cantautore della band: «Abbracciamo la nostra diversità»
Grian Chatten, voce e autore dei Fontaines D.C. (D.C. sta per Dublin City dove si sono formati nel 2017) ha creato la sua definizione della poesia: «Una relazione sentimentale con le parole». È un linguaggio che conosce bene. Da ragazzino suo padre gli proponeva un gioco: se vuoi una bustina di figurine dei calciatori della Premier League devi recitare alcuni versi. «La poesia — spiega il cantautore — è utile a livello spirituale, è un modo per accedere ai sentimenti e viverli più a fondo». Oggi Chatten, 27 anni, usa il suo accento irlandese e questo retroterra letterario per costruire il realismo narrativo post punk dei Fontaines D.C. Dopo l’esordio con l’album Dogrel del 2019 in cui hanno attaccato la decadenza dell’identità irlandese innescata dalla gentrificazione di Dublino, e dopo il Grammy sfiorato nel 2021 con A Hero’s Death, i Fontaines D.C. escono il 22 aprile con il terzo album Skinty Fia in cui rivendicano l’Irlanda come stato mentale, raccontando la malinconia dell’esilio degli irlandesi nel mondo e anche la rabbia di chi si sente sempre un outsider nella società britannica.
«La Lettura» incontra Grian Chatten il 23 marzo a Milano, in occasione del concerto della band, atteso da più di due anni dal pubblico che salta sulle sedie (pur di fare la data il gruppo ha accettato di suonare per una platea seduta): «Far alzare la gente è il nuovo punk rock». In pochi anni Chatten ha sviluppato il suo linguaggio artistico: incastra le parole in modo ritmico e ripetitivo sul suono nervoso e sferzante creato da Carlos O’Connell, Conor Curley, Conor Deegan III e Tom Coll. Quando si sono incontrati al British and Irish Modern Music Institute a Dublino questi cinque ragazzi sono stati attratti l’uno verso l’altro da un comune amore per l’espressività diretta del punk, l’immaginario Beat di Jack Kerouac e Allen Ginsberg e i classici irlandesi Yeats, Joyce e Patrick Kavanagh. Hanno esordito nella poesia prima che nella musica pubblicando due raccolte di versi, Vroom e Winding e nella prima traccia dell’album di esordio, Big, hanno dato una delle definizioni più intense della loro città: «Dublin in the rain is mine/ a pregnant city with a Catholic mind» («Dublino sotto la pioggia è mia, una città incinta con una mentalità cattolica»). «Ma non esiste descrizione migliore di quella data da James Joyce: “L’Irlanda è una visione di sé stessi attraverso una lente rotta”. Sentirsi vulnerabile ti avvicina agli altri, in cerca di un’autenticità spesso irraggiungibile. È così per la comunità irlandese in America e per chi è andato a vivere in Inghilterra. Siamo fantasmi del passato ma anche qualcosa di nuovo ogni giorno», dice Chatten. «Con Skinty Fia abbiamo raccontato l’Irlanda da fuori, abbracciando la nostra diversità».
Essere irlandese a Londra può essere ancora oggi fonte di disagio, come quando sulle porte dei pub c’era scritto «No Irish, No Blacks, No Dogs» («Vietato l’ingresso a irlandesi, neri, cani»), frase che Johnny Rotten dei Sex Pistols ha usato come titolo della sua autobiografia. «Per qualche motivo il nostro accento risulta ridicolo e non mancano di fartelo sapere
— aggiunge Chatten — oppure entri in un locale e senti: “È pieno di irlandesi stasera, meglio controllare se ci sono anche le molotov”. La Brexit ha esasperato paura e rabbia, ma la Gran Bretagna è sempre stata una nazione profondamente conservatrice».
Chatten si è trasferito a Londra da poco e per convincere la fidanzata a seguirlo ha scritto la canzone più sognante dell’album Skinty Fia, Roman Holiday («Ho cambiato la prima strofa venti volte. Cercavo il giusto equilibrio per entrare con delicatezza nella storia»). Poi ha letto su un quotidiano una notizia: «La famiglia di una donna irlandese di Coventry voleva scrivere sulla sua tomba la frase In ár gcroìthe go Deo che vuole dire «nei nostri cuori per sempre», ma le autorità non l’hanno permesso, temendo fosse percepita come uno slogan politico. È successo due anni fa, non negli anni Settanta». Il cantautore ha usato quella frase per la prima canzone dell’album e la famiglia irlandese di Coventry l’ha fatta risuonare sulla tomba della donna. Skinty Fia invece è un’espressione che si può tradurre con «la maledizione del cervo». Si riferisce alla specie estinta del cervo gigante irlandese (ritratto sulla copertina) ed è entrata nel linguaggio comune come imprecazione: «Ha un suono metallico, sembra uscire da una fabbrica ma richiama anche un immaginario mitologico. È una fiaba industriale, una storia di dannazione urbana». Le altre canzoni dell’album sono dichiarazioni come I Love You: «Parla di cosa significhi essere innamorati delle case in pietra di Dublino e allo stesso tempo sentirsi in colpa di vivere nella nazione in parte responsabile del caos irlandese, l’Inghilterra» e ritratti di vita quotidiana come The Couple Across the Way, «due anziani vicini di casa che litigavano furiosamente per poi ritrovarsi insieme in giardino».
Le parole che Grian Chatten ha imparato a usare per scrivere le canzoni coinvolgenti e spigolose della band sono «un accesso profondo all’esistenza e un modo tipicamente irlandese di comunicare anche attraverso l’ironia». È la brillante fusione tra poesia e musica ad aver creato i Fontaines D.C.: «La poesia mi ha dato un linguaggio per parlare con me stesso — conclude Chatten — il rock’n’roll me ne ha dato uno per parlare con tutti».