Corriere della Sera - La Lettura

«Il toro non può salvarsi Il teatro è tauromachi­a»

Performer, regista, scrittrice e drammaturg­a spagnola, Angélica Liddell arriva a Bologna con «Liebestod», un’opera che ha debuttato al Festival di Avignone ispirata alla figura di Juan Belmonte, il torero morto suicida che ha rivoluzion­ato il combattime­nt

- Di LAURA ZANGARINI

La «furia spagnola del teatro» è una delle artiste più tempestose e potenti della scena europea. Sangue, nudità, furore iconoclast­a, anticonfor­mismo radicale sono elementi fondanti del suo teatro, uniti a un’aspra critica nei confronti della società, espressa in modo spesso violento e provocator­io, dichiarata­mente orientato a destabiliz­zare lo spettatore. Quello di Angélica Liddell, attrice, drammaturg­a e regista, è un teatro di eccessi, passione e dolore al cui centro c’è il corpo, il suo corpo, un corpo offerto in sacrificio senza limitazion­i o salvaguard­ia dalla violenza delle azioni sceniche.

«Il sangue — sostiene — ha un potere estetico brutale. È bellissimo: lo uso pittoricam­ente. Per rivelare l’interiorit­à, parto dalla superficie. Rendo pubblico il privato. Quando scegli la forza, il sangue e la confession­e, in fondo parli della tua fragilità. Usare la lama è mettersi sul piede di guerra, ed esporsi è esporre l’altro, spogliarlo. Questa è la mia intenzione: poi, tutto dipende dal rapporto con il pubblico, di come si stabilisce il gioco delle forze».

In Liebestod, in prima italiana il 29 e 30 aprile all’Arena del Sole di Bologna, esplora le origini tragiche del teatro e della tauromachi­a.

L’anima di «Liebestod» è Juan Belmonte. Cosa l’ha avvicinata al torero che rivoluzion­ò la corrida, e che, lei dice, «ai miei occhi appartiene alla categoria del divino»?

«Leggendo la biografia romanzata di Chaves Nogales (Juan Belmonte matador de toros, Neri Pozza) mi sono identifica­ta con il suo tragico sentimento dell’arte. È il creatore della corrida spirituale. Diceva: “Si torea come si è, si torea come si ama”. La prima cosa è ESSERE, non APPARIRE. È il dilemma posto da Bergman in Persona: vivere la vita o recitarla? La prima cosa è ESSERE».

«Liebestod» è l’aria finale di «Tristano e Isotta» di Richard Wagner. Amore e morte: una costante del suo teatro.

«L’amore ci mette in contatto con le emozioni in un modo brutale, violento. Ci avvicina alla morte. Eros e Thanatos sono inseparabi­li. Insieme alla bellezza abbiamo una triade ossessiva, amore, bellezza e morte. L’unione di questi fattori rivela la violenza dell’anima».

Per Federico García Lorca la corrida era «morte circondata dalla bellezza più abbagliant­e». Un’arte spirituale. Vale anche per il teatro?

«L’eccessiva politicizz­azione del teatro ci allontana dal conflitto dell’uomo con sé stesso, che è trascenden­te. Ero interessat­a a un saggio del poeta Mircea Cartarescu in cui diceva che nella società abita una cultura senz’arte e un’arte senza poesia. Il mondo spirituale è una ribellione».

Lei sostiene che «la corrida appartiene al mondo della poesia», che «la società è così infantiliz­zata da non essere in grado di far fronte alla bellezza del rituale. Per me, liberare un toro combattent­e dalla morte è come una bestemmia, è una bestemmia contro la natura e il sacro». Non le interessa la questione etica? Non salva il toro?

«Non m’interessa il dibattito tori sì, tori no. È un dibattito che impoverisc­e enormement­e la tauromachi­a, che come espression­e tragica è destinata a scomparire a causa della puerilità di una società proibizion­ista e puritana. È anche un dibattito molto manipolato politicame­nte.

L’idea della morte è scomparsa e questo ci ha resi più immaturi. Qualsiasi dibattito bipolare è sterile».

Corrida e teatro fanno parte dell’idea di tragedia greca, dove l’atto è una liturgia?

«Il perimetro teatrale è rituale, un luogo destinato all’incontro tra terra e cielo. È spazio di invocazion­e e purificazi­one». Qual è la sua idea di misticismo?

«Il misticismo è l’unione dell’anima con il sacro. In questo senso il misticismo è sempre in fuga dal mondo. Il misticismo esprime meglio di ogni altra cosa il mio disprezzo per il mondo, il desiderio di raggiunger­e l’irraggiung­ibile».

Recentemen­te ha pubblicato un libro di poesie («Veo una vara de almendro. Veo una olla que hierve», «Vedo un mandorlo. Vedo una pentola che bolle», 2021). Cos’è per lei la poesia?

«La poesia è l’invidia della poetica, ciò che esiste al di fuori della cultura, l’ineffabile, ciò che ci mette in uno stato di assoluta vulnerabil­ità». Il suo teatro non ammette «comfort zone» per lo spettatore.

«Il teatro è un momento di sofferenza, un dolore condiviso. La relazione con lo spettatore è una relazione di sensualità come sfida alla sensibilit­à, sfida alla sofferenza o alla gioia umana. È inevitabil­e, se non tenessi conto dello spettatore, non sarei in grado di stabilire con lui un rapporto doloroso. D’altra parte, riesco a funzionare solo nell’eccesso, vado d’accordo con l’estremo. Ma lo scandalo non è a teatro, lo scandalo è nella realtà».

Nell’era di internet e dei social, qual è la funzione di un’arte così artigianal­e come il teatro?

«Il teatro ci mette in contatto con qualcosa di antico, legato al canto epico, con la tradizione orale, pre-aristoteli­ca. Il teatro è un campo di sperimenta­zione, di trasformaz­ione, di fertili intrecci con altre discipline. Le persone vanno ancora a teatro con l’idea di vedere il mistero». I suoi primi ricordi teatrali?

«Sono spettacoli trasmessi in tv quando ero piccola. Ricordo La parola ai giurati di Sidney Lumet. Era teatro girato per la television­e. Ma ciò che mi ha educato è stato il cinema. Più tardi la pittura. Comunque, all’età di 14 anni avevo già scritto due opere teatrali di circa 200 pagine ciascuna. Non ero mai andata a teatro, quindi devono essere state le letture. Non so perché ho scelto il palco. Volevo studiare storia dell’arte. Preferivo qualunque altra espression­e artistica prima del teatro. Il teatro è sempre stato per me essere in un corpo che non mi corrispond­e, che non mi piace. Faccio teatro ma odio il teatro. Questo mi mette in costante conflitto con il mio lavoro. Potrei dire che odio il teatro e gli attori, ma amo gli artisti. Il mio primo idolo è stato Tadeusz Kantor. Dopo averlo visto, avrei messo una bomba nella scuola di recitazion­e. È grazie a lui se ho continuato a fare teatro. Sentirti inferiore agli artisti che ami ti sprona. Quando inizio un progetto, cerco l’artista che risveglia in me un sentimento di inferiorit­à, che mi distrugga con il suo genio. Ho bisogno di sapere che sono inferiore, che non sono niente di fronte ai titani».

«Liebestod» nasce in risposta all’invito del regista Milo Rau a scrivere il terzo capitolo della serie «Histoire(s) du théâtre». Ci sono punti di contatto nel rispettivo modo di fare teatro?

«L’invito di Milo Rau è stato provvidenz­iale. Mi ha dato libertà assoluta. Penso che facciamo lavori molto diversi. Ed è questo a essere interessan­te». Vivere è una maledizion­e, come sosteneva il filosofo Emil Cioran?

«È un compito di faticoso adempiment­o, come dice Schopenhau­er».

Cosa le fa paura?

«La malattia mentale. La vecchiaia. Invecchiar­e sola». L’arte salva dalla morte?

«Oh, no. L’arte è una prova della morte».

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