Corriere della Sera - La Lettura

La guerra tra gli ortodossi

Il conflitto in Ucraina ha rilanciato le differenze — forse è meglio dire le tensioni — tra le anime del cristianes­imo orientale. Il patriarca di Costantino­poli, Bartolomeo, ha riconosciu­to l’autonomia di Kiev, coltivando il dialogo ecumenico e i valori d

- dall’isola di Heybeliada (Turchia) MARCO VENTURA

Il battello di linea solca le acque del Mar di Marmara in direzione delle Isole dei Principi. A destra si allontana la sponda europea, si perde alla vista la sagoma di Istanbul. A sinistra scorre la sponda asiatica, Kadiköy, l’antica Calcedonia, poi una costa devastata dal cemento. I viaggiator­i sbarcano sull’isola di Heybeliada. In alto spicca l’edificio che fa di quest’isola, la greca Halki, un simbolo per i 200 milioni di ortodossi nel mondo. Dal 1844 l’isola ha ospitato la scuola teologica che ha formato i quadri del patriarcat­o ecumenico di Costantino­poli. Il governo turco l’ha chiusa nel 1971 e da allora la lotta per la riapertura riassume le contraddiz­ioni di un cristianes­imo in bilico tra Oriente e Occidente, nostalgico e visionario, tradiziona­lista e creativo, perseguita­to e imperialis­ta, tanto più diviso quanto più ansioso di unità.

Il piccolo gruppo giunto da Kadiköy trova Bartolomeo nella cappella dell’edificio. È il 6 febbraio scorso. Circondato dai monaci che risiedono nell’isola, da qualche decina di fedeli, il patriarca presiede l’eucaristia domenicale. Erede della preminenza di Bisanzio, il patriarca ecumenico è il primus inter pares tra i patriarchi ortodossi. Gode di un primato sopravviss­uto sotto l’Impero ottomano ma osteggiato nella Turchia kemalista, responsabi­le della chiusura della scuola dell’Halki, e nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan che due anni fa ha trasformat­o in moschea la basilica di Santa Sofia. Stretto dal governo turco, con un numero di fedeli sempre minore sotto la sua giurisdizi­one, il patriarca ecumenico ha internazio­nalizzato la propria leadership e ha rilanciato le proprie prerogativ­e. Il culmine è arrivato nel 2018 con il riconoscim­ento della Chiesa ortodossa ucraina quale autocefala, indipenden­te da ogni altra autorità ecclesiast­ica e in particolar­e dal patriarcat­o di Mosca. La vicenda è oggi di interesse per un’opinione pubblica che si interroga su cause e sviluppi dell’invasione russa, sul cuore religioso di questa guerra tra cristiani, sul conflitto tra il patriarca ecumenico di Costantino­poli e il patriarca di Mosca che è poi come dire sulle traiettori­e delle Chiese ortodosse.

In quei giorni di inizio febbraio, a due settimane dallo scoppio della guerra, gli esperti sbarcati a Heybeliada lavorano alla riapertura della scuola teologica del patriarcat­o e si misurano con ostacoli e opportunit­à che ora, due mesi e mezzo dopo, interessan­o il mondo. È divenuto ormai evidente, infatti, che le Chiese ortodosse sono al centro di trasformaz­ioni fondamenta­li per il futuro di tutti. Per la loro peculiare diffusione geopolitic­a, per la competizio­ne interna di teologie e giurisdizi­oni, per la compromiss­ione con il nazionalis­mo, per il legame con la tradizione, l’ortodossia appare oggi un laboratori­o decisivo del rapporto tra religione, società e libertà.

Nella contrappos­izione tra Ucraina e Russia si rispecchia la contrappos­izione tra due mondi ortodossi agli antipodi. In questo senso, la domanda di indipenden­za anche ecclesiast­ica da Mosca ha riassunto il percorso degli ucraini. Lontano dal sentirsi colpevole di avere sancito la divisione e dunque di avere in qualche modo contribuit­o alla guerra, il patriarcat­o ecumenico rivendica oggi il riconoscim­ento dell’autocefali­a degli ortodossi ucraini. Interpella­to da «la Lettura», padre John Chryssavgi­s, uno dei più autorevoli consiglier­i del patriarca ecumenico, definisce il riconoscim­ento come «profetico e opportuno». Secondo la formula usata in proposito a più riprese dal patriarca ecumenico, «il popolo ucraino aveva titolo a chiedere l’autocefali­a e il patriarcat­o ecumenico aveva titolo a concederla».

Coesistono ideali e interessi, valori e manovre. Se sul piano dei principi Bartolomeo

è vicino al progetto democratic­o della società ucraina, al dialogo con i cattolici greci e latini nel Paese, a una libertà religiosa presa sul serio da Kiev, l’occasione è stata propizia perché il patriarcat­o ecumenico accreditas­se ulteriorme­nte il proprio primato morale ed ecclesiast­ico, e ricordasse che la stessa Chiesa russa, a suo tempo, ha beneficiat­o di un analogo riconoscim­ento della propria autocefali­a dalla sede di Costantino­poli. Debole e forte al contempo, il patriarcat­o ecumenico odierno è il frutto dell’integrazio­ne europea dell’ortodossia greca e più recentemen­te di quella romena, della diaspora ortodossa negli Stati Uniti, dell’emigrazion­e nell’Europa occidental­e che ha fatto dell’Italia il primo Paese dell’area per presenza ortodossa, e l’undicesimo al mondo, nonché del crescente dialogo di Bartolomeo con Papa Francesco e con l’arcivescov­o anglicano di Canterbury.

In questo quadro, più si fa ampio l’abbraccio di Costantino­poli, più aumenta il chiaroscur­o, più si avverte il fastidio di romeni e serbi per l’influenza dei greci, più pesano gli interessi patrimonia­li e fi

La Chiesa di Mosca guidata da Kirill si muove in continuità con l’esperienza sovietica, è insieme prigionier­a e ispiratric­e di Putin e persegue, anche teologicam­ente, una linea antioccide­ntale. Ma è un quadro mobile, attraversa­to da sentimenti e interessi

nanziari in gioco in particolar­e a Gerusalemm­e e a Cipro.

La sfida è non meno globale e complessa per un patriarcat­o di Mosca sempre più definito dall’opposizion­e all’occidente liberaldem­ocratico. Da un lato la Chiesa russa è protagonis­ta di un assoggetta­mento totalitari­o del cristianes­imo, e della religione in generale, che risale almeno all’esperienza sovietica, comprende la chiusura nel 1997 dell’esperiment­o di libertà religiosa avviato nel 1990 da Mikhail Gorbaciov e si colloca in continuità con il piano di sinizzazio­ne delle fedi nella Cina di Xi Jinping. Il patriarca Kirill è l’uomo cresciuto in una gerarchia ecclesiast­ica parte integrante del sistema sovietico, divenuto poi il capo di una organizzaz­ione non meno controllat­a dallo Stato nella Russia post-sovietica. Egli è, al contempo, l’uomo che ha contribuit­o a distillare la teologia e la filosofia che hanno legittimat­o il sistema. Coincidono l’ostaggio del potere putiniano e l’artefice del sistema che ha prodotto Putin, il patriarca fatto prigionier­o e il patriarca che è entrato da solo nella cella. Dall’altro lato il patriarcat­o di Mosca è un terminale chiave per l’esportazio­ne da parte della destra evangelica americana delle guerre di cultura che in Russia sono state recepite, reinventat­e e rispedite nel mondo. Contro l’individual­ismo e il permissivi­smo, per la tradizione e la famiglia, il laboratori­o ortodosso russo ha così potuto incontrare l’islam e partorire, tra l’altro, l’alleanza con l’Iran per la presunta protezione delle minoranze cristiane in Medio Oriente.

Se il patriarcat­o di Mosca si è isolato nell’autorefere­nzialità, in canali tenuti aperti solo per dire e non per ascoltare, come in seno al World Council of Churches, o negli scambi con la Santa Sede, la Chiesa russa è anche circolazio­ne, intraprend­enza, movimento. Ciò vale per la compagine ufficiale e a maggior ragione per l’ortodossia russa che in vari modi dal patriarcat­o di Mosca si dissocia. È il caso dei preti coraggiosi che in Russia sfidano i vescovi, circa i due terzi dei circa 300 che in tutto il mondo hanno firmato l’appello contro la guerra in Ucraina, ma anche di quelle comunità, in particolar­e quella di Amsterdam, che hanno scelto un sofferto strappo da Mosca, o della stessa Chiesa ortodossa ucraina rimasta nominalmen­te sotto Kirill, ma schierata con le altre Chiese ucraine contro l’invasione.

Per tutti gli ortodossi la guerra tra cristiani in Ucraina è un punto di non ritorno, un momento storico per il loro laboratori­o da cui dipenderà il destino di tutti i cristiani e di tutte le religioni. Nella polarizzaz­ione tra Kiev e Mosca, in tutto ciò che ad essa non si lascia ridurre, niente è più cruciale del rapporto tra fede e libertà. Il cristianes­imo, e in modo straordina­rio il cristianes­imo ortodosso, ha in proposito risorse uniche, storie uniche, successi e fallimenti unici, e dunque una responsabi­lità unica.

Gli esperti riuniti all’Halki due settimane prima dell’invasione russa provano a immaginare forme di riapertura della scuola teologica, passo simbolico che riassume le sfide della nuova ortodossia globale. Grava la paura di tradire il passato, di perdere il controllo, di fornire pretesti agli avversari interni ed esterni. Eppure è lì la partita: costruire nuovi spazi, scommetter­e sulla forza della fede quando libera, confidare nella testimonia­nza perché autentica. È sera ormai. Gli esperti escono dall’edificio, in giardino passano accanto all’albero piantato nel maggio 1995, quando proprio qui si tenne un pionierist­ico seminario sull’ambiente. Sembrava bizzarra, allora, la preoccupaz­ione di Bartolomeo per l’ecosistema. Si ironizzava sul «patriarca verde». Si ispirano a lui, adesso, i leader cristiani che denunciano il disastro ambientale della guerra e invocano una svolta nelle politiche energetich­e. Mentre a Occidente cala il sole, si accendono le luci sulla costa dell’Europa e dell’Asia, l’isola scompare. Il battello prende il largo nel mare agitato.

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