Corriere della Sera - La Lettura
RISCOSSA CINESE IN NOME DELL’OPPIO
Il Novecento della Cina è cominciato nel 1839. Quando la Gran Bretagna forzò le resistenze della dinastia Qing per imporre il proprio regime commerciale, dando inizio alle guerre dell’oppio. Per la Cina fu l’avvio del «secolo dell’umiliazione» che Mao Zedong volle cancellare nel 1949 proclamando la Repubblica Popolare. Come argomenta Julia Lovell in La guerra dell’oppio e la nascita della Cina moderna (libro del 2012, traduzione di Alessandro Manna, Einaudi, pp. 519, € 34), la vicenda ha offerto ai leader di Pechino un formidabile strumento per affermare i propri valori e la propria legittimità. I pasticciati approcci degli inglesi, il ruolo dei mercanti di Canton cui l’imperatore affidò all’inizio le trattative con gli stranieri, gli sviluppi culminati a Pechino con la distruzione, nel 1860, del Vecchio palazzo d’Estate da parte delle truppe anglofrancesi, tutto converge — per Lovell — sulla rilettura che prese slancio subito dopo la strage di piazza Tienanmen nel 1989.
In occasione dei 150 anni delle ostilità, «il dipartimento centrale di propaganda definì la storia moderna cinese “una importante questione di sicurezza”» al punto che «nel 2001 la storia ufficiale del Partito comunista cinese retrodatò esplicitamente le origini del partito» stesso al 1840 per sancire l’«inevitabilità storica della sua fondazione». E se insistere sul «secolo dell’umiliazione» consente oggi di distogliere «i cinesi dal ricordo dei disastri causati dal maoismo», la funzione del pacchetto interpretativo degli ideologi di Pechino risulta tutt’altro che peregrina (ed è utile a comprendere la logica delle rivendicazioni storiche o pseudostoriche con le quali Putin ha motivato l’attacco all’Ucraina).