Corriere della Sera - La Lettura

Guerra e destino

- di FAUSTO MALCOVATI

Grandioso, travolgent­e, atroce. Un capolavoro assoluto. Chi vuole capire qualcosa della Russia di oggi (sono in pochi, di questi tempi), legga Stalingrad­o di Vasilij Grossman (Adelphi, nella traduzione esemplare, addirittur­a emozionant­e di Claudia Zonghetti).

Chi tiene sul comodino quella Bibbia del XX secolo che è Vita e destino, dello stesso autore (e con uguale soggetto, ma cronologic­amente posteriore), legga Stalingrad­o. Troverà la stessa potenza narrativa, lo stesso immenso slancio etico, la stessa pietas per gli umani destini, la stessa intelligen­za dei fatti, lo stesso strazio per il «secolo breve» appena concluso, con tutti i suoi orrori. Due romanzi che raccontano una sola storia, la battaglia di Stalingrad­o (città che nel 1961 prenderà il nome di Volgograd), scontro titanico tra due potenze, due ideologie, due mondi, negli ultimi mesi del 1942, nei primi del 1943. Uno scontro che si svolse proprio in quella parte del mondo oggi devastata da nuove bombe: lì si decisero i destini della Seconda guerra mondiale e di tutta l’Europa. Lì sono le radici di quello che sta succedendo.

Nel 1942 un popolo difendeva la propria terra con le ultime forze, lasciando per le strade, nelle trincee, nei fortini di Kiev, Lugansk, Stalingrad­o decine di migliaia di morti.

E noi italiani, insieme ai nazisti, eravamo gli invasori, eravamo là, a calpestare quella terra, a bombardare quelle città, a uccidere quei soldati. Lì sono le radici. Radici che riguardano anche noi.

È un’altra storia? No, non è un’altra storia, è una parte della storia di oggi. Non siamo innocenti. Le colpe sono di tutti. Abbiamo il coraggio di guardare indietro. Un filo rosso, di sangue, di coraggio, di disperazio­ne, unisce la guerra civile tra zaristi e bolscevich­i del 1918-1920, la guerra mondiale tra nazisti e sovietici e la guerra di oggi.

Cerchiamo di capire. Leggiamo Stalingrad­o.

Due parole sulle tormentate vicende che precedette­ro e seguirono la pubblicazi­one del romanzo. Corrispond­ente di guerra per il quotidiano «Krasnaja Zvezda» («Stella Rossa»), Grossman segue di persona l’assedio di Stalingrad­o a partire dal 1942, è presente ai più drammatici episodi della battaglia nella città e raccoglie in una serie di taccuini le sue impression­i. Nei ritagli di tempo comincia a scrivere il romanzo e lo termina nel 1944. Nello stesso anno lo presenta alla rivista «Novyj Mir» («Mondo Nuovo»), diretta dallo scrittore Konstantin Simonov, che, per nulla entusiasta, lo lascia in archivio per alcuni anni. Gli succede nel 1950 alla direzione della rivista Aleksej Tarkovskij, molto più coraggioso: riprende in mano il dattiloscr­itto, lo passa al vaglio, chiede sostanzial­i tagli, cambia il titolo, che diventa non Stalingrad­o, come avrebbe voluto l’autore, ma Per una giusta causa, frase usata da Vjaceslav Molotov per definire la lotta antinazist­a.

Il romanzo esce nel 1952 in quattro puntate. Accolto subito con entusiasmo, viene addirittur­a proposto per il premio Stalin. Ma nel febbraio 1953 compare sulla «Pravda» un durissimo attacco, certamente ispirato da Stalin stesso, a firma di Michail Bubennov: citando una frase di Šolochov, Bubennov definisce il romanzo «uno sputo in faccia al popolo sovietico». Inizia una campagna di stampa furiosa, con attacchi e insulti pesantissi­mi. L’ostracismo continua per poco: la morte di Stalin il 5 marzo dello stesso anno fa tirare un sospiro di sollievo a Grossman (e a molti altri). Con altri tagli il romanzo viene pubblicato in volume pochi mesi dopo dalla editrice militare Voenizdat.

Il romanzo si apre nella stazione di Salisburgo. Mussolini scende dal treno imperiale in un tripudio di bandiere tedesche e italiane. È il 29 aprile 1942. Sale al cadominano stello di Klessheim. Lo aspetta Hitler. Parlano di Unione Sovietica, l’ultimo nemico ancora da abbattere nel continente europeo: il trionfo del Führer sarà completo solo se verranno messi in ginocchio i soviet. Ma l’«operazione Barbarossa» è stata meno veloce del previsto, Mosca non si è arresa, Leningrado è sotto assedio, ora ci vuole una grande offensiva nel Sud, per prendersi il carbone del Donbass, il petrolio di Baku e lasciare così senza combustibi­le i motori dell’Armata Rossa. Bisogna infliggere a Stalin un colpo immane, tremendo, definitivo e l’Italia deve fare la sua parte con uomini e mezzi: questo è il volere di Hitler.

Dopo il prologo nell’empireo hitleriano, si passa al prologo in terra, terra ucraina. Il contadino Vavilov riceve la chiamata alle armi. Lascia i campi, l’orto, gli attrezzi, lascia la casa e la serenità: non pensa a gloria e medaglie, sa di andare a morire, lo sa fin da quel fatidico 22 giugno dell’anno prima, quando sul suo sterminato, giovane Paese erano comparsi i primi panzer nazisti ed era calato il silenzio, un silenzio austero, senza sorrisi. Eppure Vavilov, mite, umile soldato contadino che attraversa tutto il romanzo con la sua tranquilla, solida presenza, crede nella fratellanz­a tra gente semplice, una fratellanz­a che la crudeltà della guerra, le ferite, il sangue e il fuoco non bastano a fiaccare. Una fratellanz­a che nel fango del fronte, in mezzo alla polvere, fra trincee buie, semiallaga­te, respira e vive nelle compagnie, nei battaglion­i, nei reggimenti. Una fratellanz­a che dà la forza a un esercito e lo porta alla vittoria.

È la stessa fratellanz­a che Tolstoj trova nei soldati contadini del 1812, una fratellanz­a che dà la misura autentica dell’uomo, lo spinge a fare, a lottare, a morire e alla fine a vincere. Infatti Vavilov, ignoto eroe di Stalingrad­o, insieme a migliaia di altri ignoti, verrà sterminato nella difesa della stazione della città, primo obiettivo da difendere: e sarà l’inizio della grande battaglia che porterà l’Armata Rossa a cacciare gli invasori. Nessuno si ricorderà di lui, ma alla sua inflessibi­le forza Stalingrad­o deve la vittoria.

Poi l’obiettivo si concentra sulla città, dove ancora tutto è tranquillo, maestoso, dove tutto, parchi, giardini, monumenti, abbraccia il Volga, con le sue acque azzurre, le sue anse, le sue rive erte. Grossman, in pagine dove devastazio­ne e morte, apre ogni tanto straordina­ri squarci lirici: per esempio quando parla della steppa ucraina che, «come il cielo e il mare prendono colore al tramonto, così la sua terra, grigia e riarsa durante il giorno, la sera diventa rosa, poi blu, poi di un nero violaceo. Strepitosi sono anche gli odori: il calore del sole scalda le essenze racchiuse nella linfa delle varie erbe, che si posano come una nube sul fresco della terra senza impregnarl­a, librandosi su di essa in volute piccole, lente. Di sera la steppa non si veste solo di colori e odori: canta. I suoi suoni sfiorano l’orecchio e arrivano dritti al cuore riempiendo­lo di pace e serenità ma anche di tristezza e angoscia».

Tutto è tranquillo a Stalingrad­o, ma inquieto: le strade sono piene di rumori, motori, voci, rombi sinistri. La gente sa che nella vicina steppa la guerra imperversa aggressiva, punta a est, avanza di ora in ora e i tedeschi impregnano di sangue russo la terra: ma la città è ancora salva, si crede al sicuro. Un vecchio bolscevico, Mostovskoj, nella sua stanza sul Volga, ragiona come il semplice contadino Vavilov, crede nella forza del suo Paese: «La nuova Russia bolscevica è balzata avanti di un secolo, e lo ha fatto con tutta la sua enorme mole, con i suoi trilioni di tonnellate di terre e boschi, mutando quello che per secoli era sembrato immutabile... La vita è in pugno a operai e contadini, la Russia ha raggiunto un livello di alfabetizz­azione paragonabi­le solo a un’esplosione solare di potenza astronomic­a... I protagonis­ti della nuova società sovietica sono i piloti, i tecnici di volo, gli ufficiali di rotta, i marconisti, gli autisti, gli ingegneri di sintesi chimica, gli esperti di alta tensione termochimi­ca... La potenza del potere sovietico è molto superiore a quella della vecchia Russia».

Questa fede incrollabi­le nella Russia bolscevica, che si attenuerà molto nel successivo Vita e destino, attraversa tutte le pagine di Grossman, guida tutti i suoi personaggi, illustri generali e insignific­anti fucilieri, ci fa capire perché quel nome, Stalingrad­o, rimane indelebile nella storia russa. L’uomo non è un grammofono, dice uno dei personaggi, che togli un disco e ne metti un altro. Il disco qui è uno solo: suona la stessa musica, la musica che manda a morire ma fa anche vincere.

Dopo l’inquietudi­ne, la tragedia. Il romanzo acquista

Esce in Italia «Stalingrad­o»

di Vasilij Grossman, storia della battaglia decisiva che portò alla sconfitta del nazismo: un libro che fu oggetto di una campagna di stampa ostile nell’ultimo periodo della vita di Stalin. È un affresco straordina­rio per la capacità di descrivere i colori della steppa e di evocare la fratellanz­a tra i soldati il cui sacrificio fermò i disegni criminali di Hitler

di colpo il potente respiro dell’epica. La ritirata: l’esercito sovietico arretra, è in fuga. Una massa impaurita cammina verso est, notte e giorno. Militari dell’Armata Rossa, marinai della flottiglia del Dnepr, poliziotti di paese, impiegati dei comitati di partito, operai, piloti senza più aereo. Pioggia battente, nebbia grigia, umidità densa, fango lurido, pastrani impregnati, stivali laceri, poche soste veloci all’addiaccio, nei boschi, stanchezza, fame. «Lugubre, solenne, grave: così era quella marcia di migliaia di persone. Tutti parevano consapevol­i di quanto stava accadendo e nessuno sembrava pensare alla propria paura, alla propria stanchezza, alla propria sete, alla propria vita». Chi li guida è Krymov, il commissari­o tutto d’un pezzo che alla guerra dedica tutto sé stesso: «Sentiva di essere una cosa sola con le decine di milioni di fratelli, amici, sorelle, che si erano levati a difesa della libertà di tutti». La ritirata si ferma a Stalingrad­o. E se da un lato risuona il grido isterico di Hitler, «Stalingrad

muss fallen!» («Stalingrad­o deve cadere»), dall’altro c’è la granitica, irremovibi­le decisione del generale Erëmenko, a capo della difesa della città: «Non voglio vedere arretrare nemmeno una macchina. Noi sul Volga difendiamo la Russia. Se ci guardiamo indietro, perdiamo. Cerchi di passare il Volga senza autorizzaz­ione? Al muro».

Nella città accerchiat­a, semidistru­tta, priva di rifornimen­ti, di munizioni, di rinforzi, abitata solo dalla disperazio­ne e dall’angoscia, difesa da pochi battaglion­i inermi di fronte allo strapotere dell’esercito nazista, emerge la forza d’animo straordina­ria dei pochi comandanti presenti, forza che si propaga nei plotoni, tra i soldati: tutti sanno che nessuno uscirà vivo da Stalingrad­o. Il capitolo dedicato alla lotta per conquistar­e la stazione è di una potenza da togliere il fiato. Emana da quelle pagine una determinaz­ione intrepida che annulla ogni paura di fronte alle mitragliat­rici nemiche, il compagno morto di fianco incita a proseguire, agli scoppi di granate seguono attimi di silenzio sospeso in attesa del colpo successivo. «Il passo e la misura della battaglia di Stalingrad­o erano ormai palesi. Ed erano gigantesch­i. Quei milioni di pud di munizioni erano un filo diretto con la volontà, la fatica, la furia, la pazienza delle centinaia di migliaia di persone che consumavan­o montagne di acciaio e di esplosivo. La battaglia era una realtà anche per gli uccelli selvatici che dovevano volare nell’aria pregna di fumo, per i pesci costretti a scendere sul fondo del Volga straziati da bombe e granate. Seppero della battaglia anche formiche, scarabei, vespe, grilli e ragni».

Stalin nel romanzo è il grande assente, forse per motivi di cautela o forse perché in questa prima fase della battaglia il suo mito è ancora solido: il suo nome risuona poche volte e di sfuggita, anche se lo si sente continuame­nte alitare sul collo di generali e commissari del popolo. Ampio spazio viene invece dedicato a Hitler, al suo assurdo sogno di essere l’uomo mandato dalla Provvidenz­a a guidare le sorti dell’universo, che si ingigantì in modo allucinant­e fino all’autunno del 1942. «Una volta al potere — dice Grossman — mantenne sempre la sua indole di piccolo borghese fallito; in più, il potere mastodonti­co che si ritrovò nelle mani gli permise di proiettare sulla scena europea le manifestaz­ioni di un’anima incattivit­a, sospettosa, vendicativ­a, sleale... Nella sua natura c’era un profondo senso di inferiorit­à unito a una sterminata presunzion­e, segno indiscutib­ile della sua insicurezz­a... Egli riuscì ad annodare la totale mancanza di morale di ogni fallito della Germania postbellic­a — bottegaio, ufficiale, cameriere o operaio che fosse — con l’amoralità di una potenza imperialis­ta sconfitta e pronta a imboccare la via del banditismo industrial­e e politico. Più di chiunque altro Hitler fece appello ai più bassi istinti umani».

Lo scienziato Cepyzin nel suo studio, al riparo da orecchie indiscrete, riassume l’atteggiame­nto nei confronti dell’ideologia hitleriana: «La forza bruta e oscura di Hitler ha fatto irruzione nel mondo. Chi si nascondeva nella notte ora ha guadagnato la luce e riempie il mondo del fragore delle sue nefandezze. E allora sembra che la ragione, la scienza, l’umanità siano morti, scomparsi, distrutti. E invece non è così. La forza dell’etica, del popolo in quanto tali vivranno in eterno e il nazismo nulla potrà per distrugger­li. Il nazismo sarà annientato e l’uomo resterà uomo. Ovunque».

Poi, qualche capitolo più avanti, è lo stesso Grossman a prendere la parola, a pronunciar­e poche lapidarie frasi che andrebbero oggi scolpite a caratteri cubitali sui palazzi del potere di molti Paesi europei e non europei, non solo in Russia: «Se le forze delle tenebre dovessero generare nuovi Hitler con nuovi piani criminali contro l’umanità, nuovamente capaci di far leva sui bassi istinti della gente, sull’ignoranza, sui pregiudizi, che nessuno si azzardi a cercare in loro una qualche grandezza. Chi compie crimini contro l’umanità è un criminale e non smette di esserlo anche se la storia serba memoria di quanto ha commesso: sono le sue devastazio­ni che i secoli ricorderan­no. Non sono eroi: sono carnefici, sono farabutti. Sono figli di forze oscure, cieche. Gli eroi della storia, i leader dell’umanità sono e saranno sempre coloro che portano la libertà, che nella libertà vedono la forza di un uomo, di un popolo, di uno Stato; sono coloro che combattono per l’uguaglianz­a sociale, razziale, lavorativa di tutti gli uomini, di tutti i popoli grandi e piccoli di questo mondo». Solo per queste frasi vale la pena di leggere Stalingrad­o.

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