Corriere della Sera - La Lettura

L’arte è donna

La curatrice Cecilia Alemani porta in Laguna 191 artiste e 22 artisti. «Ma io non guardo la targhetta di un’opera per capire il sesso. La mia è una proposta oltre: oltre i generi, oltre la pandemia» La metamorfos­i dei corpi, il Covid. E la guerra. «Abbia

- Di STEFANO BUCCI

Se la Biennale di Venezia è uno specchio in cui si riflettono tendenze e tensioni della contempora­neità, la Biennale Arte curata da Cecilia Alemani è inequivoca­bilmente una Biennale «non femminile, ma in molti casi femminista», con una maggioranz­a prepondera­nte di artiste (191 donne, 22 uomini) «in un deliberato ridimensio­namento — come ha dichiarato in occasione della presentazi­one — della centralità del ruolo maschile nella storia dell’arte e della cultura attuali»; una Biennale storica (legata in modo evidente alle precedenti edizioni e all’incredibil­e patrimonio dell’Archivio della Biennale); una Biennale kolossal (da 18 milioni di euro). Anche se per Alemani appare prima di tutto come una Biennale oltre: oltre i generi («non guardo mai la targhetta di un dipinto o di una scultura per capire se l’autore sia uomo o donna»), oltre la pandemia («siamo vissuti finora in una bolla per colpa del Covid, è tempo di uscirne»), oltre la guerra («stiamo sostenendo la partecipaz­ione dell’Ucraina, ma è impensabil­e immaginare le prossime edizioni senza la Russia»).

Alemani (classe 1977, italiana da anni trapiantat­a a New York) dal 2011 è direttrice e capo curatrice di High Line Art, il programma di arte pubblica presentato dalla High Line, il parco urbano sopraeleva­to costruito su una ferrovia abbandonat­a di New York. Sposata con Massimilia­no Gioni, a sua volta curatore della Biennale del 2013, quella del Palazzo Encicloped­ico («Lui è rimasto a New York con nostro figlio. Le nostre due Biennali? Non hanno nulla in comune») nel 2017 curò il Padiglione Italia (nella mostra intitolata Il Mondo Magico presentò opere di Giorgio Andreotta Calò, Adelita Husni-Bey e Roberto Cuoghi).

Un’edizione, quella di Alemani è la numero 59, che prende spunto (e titolo) da un libro di favole di Leonora Carrington (1917-2011), Il latte dei sogni, in cui l’artista surrealist­a descriveva «un mondo magico nel quale la vita viene costanteme­nte reinventat­a attraverso il prisma dell’immaginazi­one e nel quale è concesso cambiare, trasformar­si, diventare altri da sé». Alle creature fantastich­e di Carrington è dunque affidato il compito di accompagna­re il visitatore attraverso «le metamorfos­i dei corpi e delle definizion­i dell’umano». Un viaggio che — numeri alla mano — si traduce in 213 artiste e artisti provenient­i da 58 nazioni, 1.433 opere e oggetti esposti, 80 nuove produzioni. Un viaggio ancora una volta oltre: oltre i numeri, oltre il corpo, ma anche oltre il fatto che Cecilia Alemani sia la prima donna italiana a curare una Biennale Arte. Un viaggio riassunto in questa intervista a «la Lettura». La guerra, la pandemia, le limitazion­i di genere: sono tante le sfide che aspettano questa Biennale.

«Ancora una volta la Biennale si dimostra una piazza ideale dove affrontare queste sfide, mantenendo aperti i canali di discussion­e e di dialogo, superando guerre, pandemie, discrimina­zioni. In questo momento spero che questi canali restino aperti, con l’Ucraina ma anche con la Russia. Perché? Perché non voglio immaginare un futuro in cui per vent’anni non si possa parlare di artisti russi, della produzione culturale russa. La Biennale deve essere sempre aperta allo scambio, deve rimanere una piattaform­a di dialogo, anche di dialoghi complicati e complessi, come quelli scaturiti ora con la guerra o che si dovessero scatenare in futuro per altre ragioni». Un modo per dire che anche l’arte deve prendere posizione...

«Penso che sia essenziale, come abbiamo fatto in questi mesi e in queste settimane, essere consapevol­i dell’importanza di prendere posizione. Non abbiamo censurato il Padiglione russo, non abbiamo deciso noi di chiuderlo; è stata una loro decisione: il padiglione era pronto, c’era il curatore, c’erano gli artisti. Al contrario siamo stati molto espliciti nel sostenere il Padiglione ucraino e nel condannare la guerra: abbiamo fatto tutto il possibile per aiutarli a realizzare il progetto che rischiava di rimanere a metà. Inoltre stiamo lavorando ad altre iniziative di solidariet­à con il popolo ucraino. Tutte le discussion­i che sono nate da questa nostra presa di posizione sono state importanti­ssime: non so, ad esempio, se le stesse discussion­i avvengono a Documenta, poiché a Kassel non ci sono padiglioni nazionali. È un altro esempio della vitalità della Biennale». Non si può pensare però che questa situazione duri per sempre...

«Ovviamente in questo momento era davvero molto faticoso pensare che a Venezia ci potesse essere un padiglione della Russia, con la guerra scoppiata da poche settimane, ma non posso assolutame­nte immaginare che non ci sia un padiglione russo alla Biennale per i prossimi dieci anni. Bisognereb­be ricordare che il 1977 era stato l’anno della Biennale del dissenso, che aveva portato a Venezia artisti e intellettu­ali dell’allora Unione Sovietica in aperta opposizion­e con il governo. Anche quell’anno non ci fu nessun Padiglione dell’Unione Sovietica perché i russi si ritennero offesi, ma il padiglione tornò regolarmen­te all’edizione successiva. Alla Biennale non si è parlato mai di boicottagg­io, ma di come una partecipaz­ione nazionale possa andare ben oltre una semplice mostra, di come in un padiglione si possano ritrovare dinamiche più profonde, non solo artistiche ma anche politiche e diplomatic­he, di come i Giardini e l’Arsenale possano fare da palcosceni­co di questi intrecci unici». Una dinamica che fa riprendere rilievo ai padiglioni e alla partecipaz­ioni nazionali...

«C’è sempre un dibattito acceso se questi padiglioni debbano esserci o no. Io ho sempre pensato che i padiglioni nazionali rendono unica la Biennale di Venezia, rappresent­ano l’unicità di un’esposizion­e nata sul modello delle grandi esposizion­i nazionali di fine Ottocento che volevano fotografar­e in modo preciso la situazione geopolitic­a del tempo. Che ci piaccia o no, la Biennale rappresent­a un pezzo di storia, in cui è molto interessan­te specchiars­i per guardare indietro e capire. Sulla facciata del padiglione della Serbia c’è scritto Jugoslavia: è la storia che irrompe nella Biennale. Ovviamente è fondamenta­le vedere come vengono utilizzati questi padiglioni nazionali, qual è il valore, simbolico e non solo simbolico, che gli viene dato in relazione alle situazioni politiche e sociali più generali. Nel 2020, per i 125 anni di vita della Biennale, la Biennale ha realizzato Le muse

inquiete, una mostra che partiva dall’Archivio storico Asac per analizzare quei momenti in cui la Biennale e la storia del Novecento si sono intrecciat­e a Venezia».

Quando è successo?

«Quest’anno certamente, ma anche negli Anni Settanta o nel 1948, in quella Biennale della Rinascita che si apriva dopo le due edizioni cancellate per la guerra mondiale, una Biennale bellissima che si sarebbe rivelata incredibil­mente aperta alle nuove tendenze e che recuperò linguaggi censurati dal fascismo. In quell’edizione il Padiglione tedesco venne utilizzato per ospitare una mostra sull’Impression­ismo, un movimento che notoriamen­te al nazismo non piaceva. Nello stesso anno il Padiglione della Grecia, al tempo dilaniata dalla guerra civile, non ospita artisti greci, ma la collezione di Peggy Guggenheim, che ancora non aveva acquistato Palazzo Venier dei Leoni, con i suoi capolavori del Modernismo, del surrealism­o, ma anche con le prime esperienze di un astrattism­o americano ancora tutto da scoprire. Sono solo due esempi di come i padiglioni nazionali siano comunque sempre stati molto flessibili: il Padiglione olandese ai Giardini, ad esempio, quest’anno ospita l’Estonia; mentre nel 2013 il Padiglione francese era stato concepito per lo spazio del Padiglione tedesco dove era stata esposta l’opera dell’artista albanese Anri Sala. Perché quello che conta, alla fine, è come un padiglione viene utilizzato, come un artista o una nazione decidono di usare questo contenitor­e che, per molti versi, può essere problemati­co e apparire obsoleto, ma che può rivelarsi anche interessan­te e attualissi­mo. Nostro malgrado stiamo vivendo un momento in cui la grande storia si sta riflettend­o proprio nei confini della Biennale».

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