Corriere della Sera - La Lettura
Foster e le ruote dell’architettura
Lord Norman progettava da tempo di «abbattere le barriere tra opere d’arte e design e tra linguaggi diversi» Al Guggenheim di Bilbao la sua mostra sulle automobili «Nessuna invenzione ha tanto influenzato il nostro mondo»
Finestrino abbassato e capelli al vento si percorrono le curve sinuose di una Bentley Serie R Continental del 1953, per ritrovarsi senza stacco tra quelle della Figura distesa, scultura di Henry Moore del 1956. La leggendaria 57SC Atlantic creata nel 1938 da Jean Bugatti ruggisce vicino alla Pantera in agguato scolpita da suo zio Rembrandt Bugatti venticinque
anni prima. Le Forme uniche della continuità nello spazio del futurista Umberto Boccioni diventano quelle dei veicoli modellati nelle gallerie del vento.
Il Guggenheim di Bilbao celebra il mito dell’auto con l’esposizione Motion. Autos, Art, Architecture curata dall’archistar Norman Foster, classe 1935. Un’esposizione in cui il grande architetto britannico — da sempre appassionato di auto — lega il design automobilistico a pittura, scultura e architettura. Una selezione di una quarantina di auto, tra le più belle e significative di sempre, in dialogo stretto con opere, fra gli altri, di Brâncusi, Warhol, Calder, Ruscha; schizzi di Frank Lloyd Wright e Le Corbusier, foto di Margaret Bourke-White. «Avevo da tempo l’idea di celebrare l’auto. Mettendola in parallelo con opere di arte e architettura e altri oggetti di design e abbattendo, così, le barriere tra differenti linguaggi. Mi interessano molto le connessioni culturali, storiche, visuali tra mondi differenti», racconta Foster a «la Lettura».
Quali sono legami tra auto e arte che l’hanno sorpresa di più, Lord Foster?
«Uno scultore tra i più influenti del Novecento come Constantin Brâncusi anticipò lo Streamline (il movimento di disegno industriale nato negli anni Venti negli Usa dagli studi aerodinamici, ndr); un pioniere come Paul Jaray, designer di aerei e automobili, ha creato forme bellissime, sorprendentemente vicine a quelle di Brâncusi. E poi Boccioni e i futuristi, con i loro dipinti di strade che vorticano, anticipano le esplorazioni nelle gallerie del vento». Pitture, sculture, architettura. L’automobile diventa arte e viceversa...
«Abbiamo preso quelle che consideriamo le quattro automobili dalla “scultura” più bella — la Bugatti Tipo 57SC Atlantic, la Hispano-Suiza H6B Dubonnet Xenia, la Pegaso Z-102 Cúpula e la Bentley Serie R Continentale — e le abbiamo
in una galleria completamente bianca con le opere di Henry Moore e Alexander Calder. Quando vedi l’insieme, noti la sinergia e capisci che è un tutto unico. Prendiamo ad esempio i Bugatti, famiglia straordinaria anche di artisti: scultori, designer di mobili e gioielli. Aprire le cinghie di pelle, sollevare il cofano e osservare il motore di una Bugatti fa rimanere senza fiato: è davvero un’opera d’arte». Con il suo mondo, l’architettura, che cosa condivide il design dell’auto?
«Le forme scultoree, gli elementi nello spazio che arrivano da un modello in argilla fatto in studio. Qui a Bilbao abbiamo ad esempio in mostra un laboratorio di modellazione della General Motors. Ecco, quello studio ha riferimenti con quelli degli artisti di secoli prima. Disegnare edifici e auto è un atto creativo conscio. Anche se gli edifici non si muovono, ciascuno di essi è un sistema interconnesso, respira, risponde agli elementi che cambiano. Un’architettura e un’auto condividono il fatto di essere sistemi reattivi».
Fra le sue architetture ce n’è qualcuna che ritiene ispirata proprio al design automobilistico?
«I pannelli corrugati della Citroën 2 CV sono stati un punto di riferimento cruciale per il sistema di rivestimento del Sainsbury Centre for Visual Arts di Norwich, che disegnai tra il 1974 e il 1976. Qui a Bilbao si mostra l’auto e un pannello originale del centro: il corrugato per creare il pattern è lo stesso. Al tempo in cui lo disegnai, non ne ero consapevole. Ma oggi, guardando un edificio come quello, si può notare come il design automobilistico di allora agisse in modo subliminale».
Se l’auto ha influenzato le città del Novecento, adesso la rivoluzione dei trasporti ci dovrà fare ripensare anche l’urbanistica. In che modo?
«È un punto molto importante su cui mi soffermo continuamente. Non c’è luogo nel pianeta che in un modo o nell’altro non sia stato toccato dall’automobile. Nessuna invenzione ha influenzato così tanto il nostro ambiente immediatamente circostante. All’inizio le auto rappresentavano una svolta per le città sporche e maleodoranti a causa delle carrozze trainate da cavalli: le automobili diventavano simbolo di un’aria più pulita. Adesso siamo davanti a una nuova rivoluzione verso una mobilità sostenibile ambientalmente. L’ultima galleria della mostra è dedicata alle giovani generazioni di designer che abbiamo invitato a riflettere su quella che potrebbe essere la mobilità del futuro: un’intersezione meravigliosa di idee, previsioni, voli di fantasia. Allo stesso tempo in mostra si vedrà come l’auto elettrica sia nata presto: la Porsche Phaeton nel 1900 aveva motori elettrici nei mozzi delle ruote che poi furono ripresi nei veicoli lunari».
Fra i suoi progetti per il mondo automobilistico c’è la riproposta nel 2010 della futuribile Dymaxion progettata da Richard Buckminster Fuller nel 1933. Perché era così moderna?
«È qui in mostra. Ho lavorato con Fuller e negli ultimi anni della sua vita gli sono stato molto amico. La sua Dymaxion era straordinariamente visionaria, già improntata al risparmio di carburante. Ma qui a Bilbao c’è anche un’altra auto della collezione della mia famiglia: la Voisin C7 personale di Le Corbusier. Ho compreso le affinità visuali tra quest’auto e i suoi lavori architettonici in quel periodo degli anni Venti, caratterizzati da smaltature orizzontali: la Voisin è l’equivalente automobilistico di quel procedimento. Di nuovo, un prodigioso legame tra l’architettura statica e questo veicolo che deriva dall’aviazione». L’Alfa Romeo Bat Car 7 del 1954 è uno dei pezzi italiani in mostra...
«C’è anche una Cinquecento, auto straordinaria, come la Seicento il cui design ricevette un tributo dalla stessa Bmw che realizzò nel 1957 una Bmw 600 con l’apermesse
tura davanti. E una Ferrari 250 Gto del 1962: appartiene a Nick Mason, il batterista dei Pink Floyd. Mason fu uno dei miei primi allievi quando all’università studiava architettura. Per la mostra ha concepito un’esperienza sonora immersiva». In definitiva, perché un’auto può affascinare al pari di un’opera d’arte?
«Perché è la combinazione di libertà e controllo. L’auto è un’estensione meccanica dell’uomo: ha quasi una sfumatura animale, come si vede nel linguaggio automobilistico dove si parla di cavalli. Questa mostra rappresenterà un punto di svolta nella storia dell’auto. Immagino gli storici del futuro che la guarderanno come celebrazione di un’epoca alla sua fine. Mentre si va verso forme di mobilità più silenziose, pulite, autonome».