Corriere della Sera - La Lettura
Il Terzo Novecento
La globalizzazione appare in crisi, torna in Europa la guerra convenzionale. Da una parte sembra di scorgere scenari che richiamano il Novecento, dall’altra emergono nitidi i tratti inediti di una «terza fase» nei rapporti internazionali dopo l’epoca delle guerre mondiali e quella del confronto bipolare. Ne abbiamo discusso con tre storici: Fulvio Cammarano dell’Università di Bologna, Andrea Graziosi dell’Università Federico II di Napoli, Federico Romero dell’Istituto universitario europeo di Fiesole. Ci sono analogie con il XX secolo nella crisi in atto?
FULVIO CAMMARANO — Direi che per certi versi le argomentazioni panslave di Vladimir Putin evocano scenari anche anteriori, ottocenteschi. Ma certo la tragedia dell’Ucraina, con il massiccio coinvolgimento dei civili, richiama i conflitti più importanti del XX secolo. Già nella Prima guerra mondiale le vittime civili furono 7 milioni, nella Seconda addirittura 43 milioni. Nelle vicende belliche novecentesche i civili diventano un bersaglio perché non sono più sudditi passivi, ma cittadini, soggetti attivi, anche se disarmati, della nazione nemica. Così nel 1914 l’invasione tedesca del Belgio si accompagna all’uccisione di 5.500 ostaggi per rappresaglia. C’è un salto di qualità?
FULVIO CAMMARANO — Nel 1949 il giurista tedesco Carl Schmitt segnala che ormai per sconfiggere il nemico ogni mezzo è lecito e ogni conflitto — qui alludeva alla guerra fredda — assume i tratti della guerra civile. riferimento all’Ucraina ho letto un intervento in cui un alto ufficiale americano vedeva forti analogie con il tipo di attacco sovietico che la Nato si preparava a respingere negli anni Ottanta. L’unica differenza, diceva, sono i droni. Poi c’è il fatto che la guerra, da quando esiste l’opinione pubblica, resta un ambiente propizio alle falsificazioni, quelle che inducevano lo storico Marc Bloch a definirla un esperimento di psicologia sociale.
ANDREA GRAZIOSI — Io vedo però anche forti elementi di novità. Per esempio i carri armati, arma principe del XX secolo, oggi appaiono in grave difficoltà contro l’esercito ucraino. Osservo inoltre che questa guerra è la tomba della non proliferazione nucleare. Credo che gli ucraini rimpiangano molto lo smantellamento dell’arsenale atomico che si trovava sul loro territorio, attuato nel 1994 a favore di Mosca e finanziato dagli Stati Uniti: un fatto che smentisce l’immagine della Russia assediata dagli americani. Ora credo che tutte le medie potenze cercheranno di procurarsi armi nucleari.
E la questione dei civili?
ANDREA GRAZIOSI — Qui c’è un dato nuovo che riprende elementi del XX secolo: l’intento proclamato da Putin della «denazificazione», che in realtà significa deoccidentalizzazione. Di fronte alla resistenza strenua degli ucraini, l’aggressore si pone il problema di trasformare un popolo in un altro, eliminando fisicamente tut
La prima parte del XX secolo ha prodotto le guerre mondiali, la seconda parte si è retta sull’equilibrio nucleare tra due superpotenze. Ora siamo entrati in una nuova fase che presenta
analogie con il passato, visibili bene nell’atteggiamento della Russia e nel conflitto in Ucraina, ma anche novità
preoccupanti e importanti. Ne abbiamo discusso con tre storici dell’età contemporanea: Fulvio Cammarano, Andrea Graziosi e Federico Romero
ta l’élite «contaminata» dall’influenza dell’Occidente. Un altro dato di cui prendere atto è la fine dell’ordine mondiale scaturito dalla fine dell’Urss, contro il quale si è scagliato Putin. Ma io direi di più: si è esaurita l’egemonia planetaria degli uomini bianchi (americani, russi, europei), un predominio che Mao Zedong contestava già nel Novecento e che oggi appare finito.
FEDERICO ROMERO — Le continuità ci sono, se guardiamo alla guerra in corso, ma penso che gli elementi di cambiamento siano più importanti. Il dato di maggior rilievo è che siamo di fronte a un conflitto di lungo periodo non solo tra Mosca e la Nato, ma più ampiamente tra la Cina e la Russia da una parte, l’Occidente dall’altra. È così che lo configurano, con prudenza, i dirigenti cinesi e, in modo più netto, i governanti americani. È uno scontro che riflette il tipo di globalizzazione in corso da trent’anni, che si risolverà fuori dall’Europa e che sta già investendo il mondo intero. Lo si vede dal modo differenziato in cui i vari Paesi si pongono rispetto alle sanzioni contro Mosca. Anche Stati democratici come India e Sudafrica preferiscono stare alla finestra.
FULVIO CAMMARANO — Putin, come dice Graziosi, sta cercando di uscire da una gabbia, di mandare all’aria l’ordine instaurato dopo la caduta dell’Urss. E questo richiama il revisionismo, soprattutto tedesco, contro l’assetto fissato dalla pace di Versailles del 1919. Non credo invece che ci attenda una riedizione della guerra fredda, se non altro perché è venuta meno la contrapposizione tra capitalismo e comunismo, che mobilitava le masse in tutto il mondo. Inoltre Stati Uniti e Russia mi appaiono due imperi in declino, pugili ancora capaci di sferrare colpi potenti, ma ormai al tramonto. La forza emergente è la Cina, con i suoi progressi in campo tecnologico e l’attivismo nella caccia alle materie prime che la rendono un attore di peso crescente.
ANDREA GRAZIOSI — L’analogia tra i due revanscismi è fondata, ma direi che quello tedesco dopo il 1919 era più giustificato rispetto a quello russo dopo il 1991. Alla Germania furono imposte ingenti riparazioni di guerra e grosse limitazioni di armamenti, mentre la Russia postsovietica è stata aiutata dall’Occidente, anche se non quanto si aspettava. Ma questo non rende i discorsi di Putin meno efficaci agli occhi dei russi.
Su quali fattori fa leva il leader del Cremlino?
ANDREA GRAZIOSI — Il suo progetto non è etnico, come non lo è la resistenza ucraina. Putin mira a costruire un Russkij Mir, un «mondo russo» incentrato su Mosca, nel quale include bielorussi e ucraini, ma anche le popolazioni siberiane. A sua volta Volodymyr Zelensky, ebreo e russofono, rappresenta un’identità che non si presenta come etnica, tanto che in gran parte i combattenti ucraini parlano russo. Putin vuole «rifare grande la Russia» come Donald Trump con gli Usa, ma la sua
aggressività è frutto di una crisi, così come gli slogan dell’ex presidente americano. Se poi si aggiungono le difficoltà dell’Europa, vediamo che tutte le tre componenti «bianche» del mondo non se la passano bene. È possibile una convergenza tra Cina e Russia?
ANDREA GRAZIOSI — Sono realtà molto diverse. La Russia è un Paese con un Pil basso e una grave crisi demografica, vive di esportazione delle risorse naturali, mentre la Cina è un gigante che viene da quarant’anni di sviluppo impetuoso. Credo che gli americani sbaglino quando si rifiutano di ammettere che il mondo non si può gestire senza un’intesa con la Cina. In fondo per decenni hanno riconosciuto un ruolo del genere all’Urss. A mio avviso è probabile che si vada verso un mondo di grandi blocchi. Due sono sicuramente gli Stati Uniti e la Cina. Non credo invece che la Russia possa avere ambizioni del genere. Bisogna vedere se l’Europa continentale, senza più la Gran Bretagna, potrà costituire un altro blocco: io ho molti dubbi. E poi c’è l’India, che ha i numeri per diventare un grande attore mondiale, ma potrebbe essere investita da spinte centrifughe.
FEDERICO ROMERO — Senza dubbio un grande problema sarà quello, già citato, della proliferazione nucleare. Abbiamo di fronte la dimostrazione che la deterrenza atomica funziona: se Putin non avesse alluso alla possibilità di farvi ricorso, credo che il coinvolgimento della Nato nella guerra in Ucraina sarebbe stato ben maggiore. Quindi temo che ci attenda una fase pericolosa di corsa alle armi nucleari. E l’antagonismo tra Washington e Pechino?
FEDERICO ROMERO — Sarà il conflitto cardine del futuro. Oggi la Cina, sia pure con cautela, sta usando lo scontro in atto della Russia con la Nato per fare avanzare l’idea che il sistema di regole internazionali dettato dall’Occidente abbia fatto il suo tempo e vada cambiato. Su questo i discorsi dei dirigenti di Pechino sono molto simili a quelli dei loro omologhi russi. Bisogna allora vedere se il mondo atlantico intende spingere la Cina verso un abbraccio con Mosca, al quale essa è tutto sommato riluttante, o preferisce agire per separarle. Credo che la seconda opzione sia la più sensata, ma gli americani pare abbiano scelto di considerare la Cina un avversario strategico. In questo c’è un’evidente continuità fra Trump e Joe Biden, anche perché l’antagonismo con la Cina è forse l’unico argomento che unisca oggi un Paese profondamente diviso al suo interno come gli Usa.
E il resto del mondo?
FEDERICO ROMERO — Non si schiera con uno dei due contendenti, ma non dà nemmeno vita a forme di coordinamento come fu in passato il movimento dei non allineati. Ciascun Paese si muove in base ai suoi mutevoli interessi specifici, politici ed economici.
ANDREA GRAZIOSI — Io non credo però che i rapporti tra Cina e Stati Uniti debbano essere per forza conflittuali. Non lo sono stati con Bill Clinton alla Casa Bianca e in realtà neanche con George W. Bush. La svolta è stata impressa da Barack Obama e da allora, come ha osservato Romero, si registra una netta continuità. A mio avviso è un modo di reagire al declino americano: si presenta la Cina come un nemico perché ci si rifiuta di ammettere che gli Stati Uniti non possono più dettare legge su scala globale. Mi sembra un atteggiamento dannoso e spero venga corretto. Le due maggiori potenze attuali si sono parlate in passato e possono farlo di nuovo. Può avere un ruolo autonomo l’Europa? FULVIO CAMMARANO — Credo possa farlo solo se riuscirà a operare come nazione, o quanto meno come entità politica unitaria. Bisognerebbe procedere in maniera spedita verso l’integrazione nei settori strategici come la difesa: purtroppo ci sono momenti di slancio in cui questa prospettiva sembra possibile e poi subentra di nuovo l’ordinaria amministrazione.
ANDREA GRAZIOSI — Non parlerei di nazione europea, perché non è una prospettiva possibile. Credo che la sfida sia creare uno Stato continentale europeo. Possiamo costruirlo? Io lo spero, anche se temo che sia difficile. Oggi non esiste più l’Occidente di un tempo: l’Unione Europea comprende anche i Paesi dell’Est come Polonia e Romania, mentre la Gran Bretagna è uscita. Gli ex Stati socialisti hanno scelto l’Ue, dove vorrebbe approdare anche l’Ucraina, mentre l’attuale classe dirigente di Mosca ha puntato sul progetto Russkij Mir, portatore di valori completamente diversi. Sotto questo profilo una contrapposizione ideologica c’è: per i russi
siamo la corruzione e il peccato, come ha detto il patriarca Kirill della Chiesa ortodossa. Perché c’è questo divario tra Russia ed Europa? ANDREA GRAZIOSI — È un’eredità della rivoluzione bolscevica. Fino al 1917 la Russia, con la sua grande cultura, era considerata un pezzo fondamentale dell’Europa. Ma l’esperienza sovietica, con le devastazioni prodotte da Stalin e l’isolamento forzato in cui l’Urss è stata tenuta per decenni, ha prodotto una forte divergenza, che invano Mikhail Gorbaciov ha cercato di superare con l’idea della casa comune europea dall’Atlantico agli Urali. Purtroppo da allora la divergenza si è accentuata e il rafforzamento dell’Ue l’ha resa più ampia. In che senso? ANDREA GRAZIOSI — L’attuale élite russa vicina a Putin sostiene una tesi non banale. Cioè che la Russia avrebbe potuto inserirsi felicemente nell’Europa dopo il 1991 se non ci fosse stata l’Ue. Poteva tornare ad essere, dopo la fine dell’Urss, uno Stato tra gli altri Stati, con il suo peso e il suo ruolo, ma non integrarsi nell’Unione Europea con le sue pretese di controllare la democraticità dei singoli Paesi e le sue regole complesse. Da questo punto di vista il progetto di edificare uno Stato europeo è un motivo di spaccatura. Io sono a favore dell’integrazione politica europea, ma credo non ci si debba nascondere che quel progetto aumenta le difficoltà nel trattare con la Russia. FEDERICO ROMERO — Sono d’accordo. La formazione di un potenziale Stato continentale stabilizza i Paesi che ne entrano a fare parte, ma destabilizza quelli che rimangono fuori, innescando processi politici negativi. Vale per la Russia, vale anche per la Turchia. Ciò esige che ogni passo compiuto dall’Ue verso l’integrazione sia accompagnato da progressi che portino ad avere una politica estera e di sicurezza comune per gestire i rapporti con il mondo esterno. Mi pare tuttavia che questo non sia possibile. Perché?
FEDERICO ROMERO — Negli ultimi anni, anche per via della pandemia, l’Unione ha fatto grossi passi avanti nella sfera economica con il Next Generation Eu e anche nel modo in cui stiamo gestendo le sanzioni contro la Russia. Ma non vediamo sviluppi simili — e temo che non riusciremo a vederli in futuro — nella politica di difesa. L’Unione economica e monetaria ha il suo fulcro nell’asse franco-tedesco, con l’aggiunta dell’Italia e della Spagna, mentre l’Europa che sta nella Nato finisce per essere dominata dall’altro asse che si è formato tra Stati Uniti e Gran Bretagna da una parte, Polonia e Paesi baltici dall’altra. Non credo quindi che si arriverà a una difesa europea, mentre penso che si debba consolidare e approfondire l’integrazione economica perché si tratta di una materia d’interesse strategico, come vediamo a pro
posito delle sanzioni alla Russia nel settore dell’energia. E il rapporto con la Cina?
FEDERICO ROMERO — Qui vedo il motivo di maggiore distinzione, se non distanza, dalla posizione statunitense. Credo che l’Europa dovrebbe sforzarsi di mantenere e rafforzare buone relazioni con Pechino. Gli americani pongono la questione in termini dicotomici: democrazie contro dittature. Ma nella contrapposizione netta che schiaccia la Cina e la Russia come un unico antagonista, con gli Stati Uniti alla guida indiscussa dello schieramento atlantico, all’Europa viene riservato un ruolo di netta subordinazione. Mentre io credo che l’Ue, ridefinendo il proprio profilo economico, potrebbe costruire un rapporto diverso sia con la Cina sia con gli alleati americani, purché non resti frenata dai mille piccoli ostacoli interni che incontra di continuo nel suo processo di unificazione.
Il problema è forse che gli Stati nazionali restano ancora un punto di riferimento molto forte.
FULVIO CAMMARANO — Io condivido il progetto di uno Stato europeo. Ma il problema è che uno Stato senza nazione diventa una sorta di scatola vuota, diretta da una tecnocrazia. Anche i passi avanti sul terreno economico sono più difficili senza collante politico. La tesi secondo cui gli Stati nazionali erano destinati alla consunzione è da tempo tramontata. In realtà anche alla globalizzazione continuiamo a guardare dalla vecchia prospettiva dello Stato nazionale nato dalle rivoluzioni settecentesche, che tuttora domina l’immaginario della gente. In fondo anche sotto le finestre di un’autorità universale come il Papa i fedeli cattolici continuano ad andare portando le bandiere dei rispettivi Stati. Dunque della nazione non si può fare a meno? FULVIO CAMMARANO — È l’unico motore ideologico rimasto incontrastato e funzionante. Nel momento in cui viene inserito nell’intelaiatura statale, si afferma come protagonista. Cina, Stati Uniti e Russia si muovono a livello globale, ma facendo sempre riferimento a questa dimensione. Le grandi culture cosmopolite e universaliste — non solo il cattolicesimo, ma anche il liberalismo e il socialismo — lo consideravano uno strumento transitorio, invece dopo la Prima guerra mondiale lo Stato ha dimostrato di non avere alternativa e ha ridisegnato il rapporto tra società e individui. Però oggi appare impotente di fronte ai problemi di portata globale. FULVIO CAMMARANO — Certo, possiamo agitare tutte le bandiere che vogliamo, ma di fronte ai mutamenti climatici o alla crisi energetica lo Stato può fare poco. Per uscire da questa contraddizione andrebbe rinoi
pensato il problema del rapporto tra Stato e nazione. L’integrazione europea è una scommessa in questo senso, ma senza un forte richiamo di tipo identitario nazionale temo che abbia il fiato corto.
ANDREA GRAZIOSI — Sicuramente assistiamo a una ripresa dello Stato, ma la forma nazionale non è universalizzabile, se non altro perché nel mondo ci sono seimila popoli, ciascuno con la sua lingua, e solo duecento Stati. Però è vero che lo Stato nazione ha una grande vitalità, perché unisce cultura, lingua e ideologia intorno a una forma razionale. Solo che lo Stato fondato su un’unità culturale e linguistica era proponibile in Europa, si è rivelato praticabile — sia pure in forma molto modificata — nelle Americhe, lo è in Cina, non lo è assolutamente in Africa e in tanti altri luoghi del mondo. E l’Unione Europea?
ANDREA GRAZIOSI — Se vogliamo farla diventare uno Stato, non possiamo pensare di darle una connotazione nazionale. Allora bisogna pensare a una federazione plurietnica, che però è una forma fragile, bisognosa di continue manutenzioni, come confermano i crolli dell’Urss e della Jugoslavia, nonché le difficoltà dell’India. Anche per questo l’Europa comunitaria è diventata una costruzione soprattutto economica e legale, mentre non riesce a darsi una politica estera né a pensarsi come un soggetto delle relazioni internazionali, anche per l’assenza di un’opinione pubblica continentale. Quindi l’Ue non sa come porsi nei riguardi della Cina, ma anche della Turchia e della Russia. Un’ultima osservazione è che il ritorno dello Stato è innegabile, ma bisogna stare attenti, perché quanto la mano pubblica pretende di fare troppo, alla fine le strutture statali non reggono, come dimostra il caso dell’Unione Sovietica.
FEDERICO ROMERO — Ho sempre pensato che il tramonto dello Stato nazionale fosse un’infondata manifestazione di ideologismo. La stessa globalizzazione ha indebolito gli Stati medio-piccoli come l’Italia, non certo quelli di grandi dimensioni. E ciò è apparso sempre più chiaro con la crisi finanziaria e poi con quella pandemica, che hanno visto un forte rilancio delle strutture statali. Per giunta, mentre si parlava di declino dello Stato nazione, forme di nazionalismo sono diventate la cultura prevalente in cui si esprime il disagio sociale delle persone colpite dalle conseguenze negative della globalizzazione. E qui si tocca il nodo delicato del consenso interno nelle democrazie, che vacilla in diversi Paesi europei e anche negli Usa, dove le contrapposizioni si sono incancrenite e il prossimo presidente sarà di certo meno atlantista di Biden. È un problema che rischia di esplodere, anche per le crescenti difficoltà economiche che si annunciano per i ceti meno abbienti.