Corriere della Sera - La Lettura
Tifare per il nemico, ieri e oggi
L’8 marzo 1936 Adolf Hitler viola gli accordi di pace che avevano posto fine alla Prima guerra mondiale e manda 20 mila soldati a occupare la Renania. È il primo segnale di una escalation che lo porterà nel 1938 ad annettere l’Austria, poi a invadere i Sudeti, infine la Cecoslovacchia e la Polonia nel 1939. Ma per uno dei maggiori giornali americani quel che accade in Renania è una non-notizia. «Sta occupando un territorio che è suo», commenta il «New York Daily News». Lo stesso editore del «Daily News», Joseph Patterson, un mese prima dell’invasione nazista in Polonia visita la Germania. Il primo agosto 1939 scrive: «Il pericolo di guerra diminuisce». A settembre scoppia la Seconda guerra mondiale.
Miopia, superficialità? No. Un pezzo d’establishment americano tifava contro i valori dell’Occidente, simpatizzava per gli autoritarismi altrui, li sdoganava come potenze stabili e capaci di esercitare un ruolo benefico nell’ordine mondiale. La stampa aveva un ruolo di punta nel sostenere il nemico (o futuro nemico). The Newspaper Axis cioè «l’Asse dei giornali», lo chiama la storica Kathryn Olmsted nel saggio appena uscito negli Stati Uniti con questo titolo.
L’allusione è alle potenze dell’Asse: l’alleanza fra la Germania di Adolf Hitler, l’Italia di Benito Mussolini, il Giappone dell’imperatore Hirohito. Ma i giornali in questione erano angloamericani.
Olmsted ricostruisce il ruolo che ebbero in quegli anni sei magnati della stampa, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti: tutti indulgenti, qualcuno apertamente favorevole, nei confronti degli autocrati nazifascisti. L’influenza di questi editori era enorme. William Randolph Hearst è il più celebre, ispirò il personaggio di Citizen Kane nel film di Orson Welles del 1941. Hearst possedeva una catena di 28 quotidiani da un capo all’altro degli Stati Uniti. Gli altri «baroni» dell’informazione in America erano Patterson del «Daily News», sua sorella Eleanor proprietaria del «Washington Times-Herald», Robert McCormick del «Chicago Tribune». Raggiungevano ogni giorno 50 milioni di lettori. I corrispettivi sull’altra sponda dell’Atlantico erano il padrone del «Daily Mail», Lord Rothermere, e quello del «Daily Express», Max Beaverbrook. I due dominavano le vendite in Gran Bretagna: 16 milioni di lettori.
In comune, racconta Olmsted, avevano la simpatia per i fascismi. Negli anni Trenta e fino all’inizio del decennio successivo, la loro potenza mediatica fu al servizio di una causa: giustificare i regimi totalitari che odiavano l’Occidente, legittimarne le mosse sullo scacchiere europeo.
C’erano legami di simpatia ideologica: anticomunismo e antisemitismo. In America gli editori di quei giornali sospettavano che il New Deal di Franklin Roosevelt fosse l’anticamera del socialismo; per screditarlo attaccavano i «consiglieri ebrei» del presidente democratico: come il segretario al Tesoro Henry Morgenthau e il giudice della Corte suprema Felix Frankfurter. Dopo l’esplosione di violenze contro gli ebrei in Germania nota come «la notte dei cristalli» (9-10 novembre 1938) il commento del «Daily News» fu che «parecchia gente sta esercitando il diritto di non amare gli ebrei».
L’Asse dei giornali contribuì a ritardare l’entrata in guerra di Roosevelt contro i nazifascismi. La potenza
How the United States Abandoned Peace and Reinvented War di Samuel Moyn (Farrar, Straus and Giroux, 2021). Lo recensisce entusiasticamente Jackson Lears su un «tempio» della cultura progressista, «The New York Review of Books». La tesi del libro suona familiare a chi frequenti l’intellighenzia progressista americana: l’Impero del Male siamo noi. Il libro passa in rassegna la storia degli Stati Uniti con un filo conduttore: sono una potenza aggressiva, militarista e guerrafondaia. Le prove che questa superpotenza ha il grilletto facile abbondano, dalla Seconda guerra mondiale in poi l’80 per cento dei suoi interventi militari hanno avuto luogo nel periodo successivo alla caduta del Muro di Berlino, quando in teoria c’erano meno ragioni di entrare in conflitto.
Ma il pensiero conforme di Moyn e Lears scivola inesorabilmente dalle accuse all’America all’assoluzione di Putin. Riprendendo alla lettera le parole usate dall’autocrate russo e da Xi Jinping, Lears attribuisce agli Stati Uniti «la ricerca di uno scontro con la Russia nello stile della guerra fredda», «il rifiuto di rispondere alla paura russa di un accerchiamento da parte della Nato». È sempre «la politica degli Stati Uniti che prolunga la guerra». Ed è Washington ad avere ispirato «gli ignoranti e irresponsabili appelli dell’Ucraina per una no-fly zone» (che in realtà Biden rifiuta). L’Asse dei media che tifano per chi odia l’Occidente è più pluralistico rispetto agli anni Trenta del secolo scorso, ma la sua storia è lungi dall’essersi conclusa.