Corriere della Sera - La Lettura
Arriva la salamandra Tocca fidarsi di lei
All’indomani dell’8 settembre 1943, il protagonista del romanzo di Paolo Colagrande escogita un modo per mettere al sicuro una comunità di ebrei. Ma la vera protezione viene dal potere della parola di creare una realtà alternativa
La vanvera, spiega Aràd Mozenic alla figlia Maria, detta Cina, è un «meccanismo autogenerato che riposa in un’area spirituale arcaica, veterotestamentaria del cervello e rovescia le sue onde sul mondo come un maremoto». È insomma uno sproloquio che trae i suoi materiali da «aree inesplorate della psiche», e tuttavia arriva a sfiorare un nucleo profondo di verità pura. Ed è proprio la vanvera (all’indomani dell’8 settembre 1943) a suggerire ad Aràd Mozenic, individuo politicamente sospetto «per ragioni di genia», una via di salvezza: la variazione del proprio nome in Aride Mestolari e l’ideazione di un improbabile piano per sfruttare la scoperta sulle rive del rio Fogazza di una miniera di carbone, sono le improbabili strategie per ingannare il regime, cioè per «tenere a bada la belva finché l’agonia non fosse arrivata al suo approdo dove anche la creatura più malefica non ha più la forza della crudeltà».
Paolo Colagrande ci riporta, con Salvarsi a vanvera, all’Italia occupata dai nazi-fascisti e a una immaginaria comunità ebraica mossa dalla urgenza di risolvere un problema generale, quello della sopravvivenza. In effetti, fin dal suo primo ingresso in scena, Aràd dichiara metaforicamente questa impellente necessità: nei ricordi dalla narratrice, sua figlia Cina, egli solleva con la mano sinistra la visiera del cappello per far largo a un pensiero, creandogli spazio oltre un ingombro. Se l’ingombro è la storia con le sue devastazioni, il pensiero costituisce la via stretta per una salvezza possibile. Si tratta tuttavia, come sanno i lettori di Colagrande, non di un pensiero razionale, illuminista, cartesiano ma di un arabesco in cui la forza dell’invenzione è il motore dell’azione: Aràd immagina infatti di proteggere sé stesso e la sua famiglia con la forza della falsificazione, dell’arte della impostura che (come ci ha insegnato Mario Lavagetto in un indimenticabile libro sulla bugia in letteratura) alimenta la vicissitudine storica e narrativa.
In Salvarsi a vanvera la storia ha le fattezze della «croce piena di angoli retti simbolo dell’impero sovrano», ma l’impostura ha quelle — assai più indefinite e multicolori — della «salamandra ignifera gigante cinese», capace di incenerire chiunque si avvicini alla miniera di carbone ove si nascondono gli israeliti messi in salvo da Aràd. Nel mondo infestato dalla propaganda, il valore della parola è così corrotto che per ripristinarlo occorre omeopaticamente lavorare con lo stesso principio di alterazione della verità, e conaturale, sì la leggenda inventata da Aràd acquista rapidamente, nel passaparola dei numerosissimi e fantasiosi personaggi, statuto di verità. Ed è una verità salvifica, una «Itaca minore e casalinga» ove trovare riparo e offrire conforto.
L’ironia (il witz ebraico) è ancora una volta, come già nei precedenti Senti le rane e in La vita dispari, la chiave di lettura del reale, l’unico strumento che consenta di muoversi, caracollando, sul margine ibrido della storia, quello «in cui non sai se piangere o ridere. E va a finire che fai tutte e due le cose perché l’accordatura è la stessa». Proprio «accordatura» è uno dei termini chiave per accedere a questo racconto dove la musicalità ha un ruolo sotterraneo ma importantissimo: le parole infatti, soprattutto «certe parole» come «canapé, negletto, bonnetière e correità» predilette dalla madre della narratrice, sono la macchina folle attraverso i cui questi personaggi-falsari creano una potente realtà alternativa. La musica delle parole non è musica ingannatrice, non è retorica volta all’inganno (non è la parola dell’Ulisse dantesco) ma consolidamento di leggende, bufale, imposture vere e proprie in realtà credibile e creduta.
Tra galli silvestri e bardotti, anche gli animali acquistano in Salvarsi a vanvera un particolare valore di familiarità: sia la salamandra ignifera gigante cinese, sia Donizetti, il canarino burgravo grisumetrico, sono creature fantasiose che accompagnano la vicenda, che indicano l’azimut della storia, l’uscita dalla grotta oscura della guerra, attraverso una vivace e misteriosa bussola. Analogamente, anche i personaggi umani sono misteriosamente percorsi da una tensione insopprimibile al ritorno a casa: il filo rosso della storia è quello del bambino Cali, la cui identità e la cui famiglia devono essere ricostruite «unendo i punti a matita» di una storia lacunosa, di parole indicibili; ma anche la professoressa Elmide e il maggiore Aginolf Dietbrand von Appensteiner sono personaggi dallo statuto ambiguo, che nelle pieghe violente della guerra cercano una casa, un’identità, una famiglia.
Parole, queste ultime, che nel vocabolario di Colagrande si sovrappongono a
mondo oa protezione, poiché «essere al mondo è l’unica identità possibile, e questo vale per tutti, anche per mio babbo Aràd che da quando ho memoria intelligente è sempre stato mio babbo [...]. E sarebbe stato Aràd anche se fossi venuta a sapere che era un santo apostolo o il patriarca Abramo o il famoso Dio sceso in terra». © RIPRODUZIONE RISERVATA