Corriere della Sera - La Lettura
Le croci sono volti I colori sono lacrime
sperimentatore austriaco, porta a Venezia i dialoghi con Emilio Vedova (in mostra anche a Verona). Mentre si avvicina il museo dedicato al grande autodidatta
Arenderli simili sono le Croci, sono i Tondi: non semplici forme geometriche, ma piuttosto frammenti di cosmo che su antiche pareti in mattoni incrostati di sale scorrono come lacrime di colore. È quella croce che, al tempo stesso, è la sintesi del volto umano, il segno della sofferenza, della bellezza e della tragedia. Da una parte: Arnulf Rainer (austriaco di Baden, classe 1929), grande sperimentatore, in bilico tra surrealismo, espressionismo astratto americano, informale e poi tra performance, fotografia, pittura. Dall’altra: Emilio Vedova (veneziano di Venezia, 1919-2006), autodidatta, inizialmente vicino al movimento di Corrente, poi sempre più legato a un astrattismo fatto di una costante sperimentazione di tecniche (le Lacerazioni ,i
Plurimi), materiali e colori (il nero, il grigio, il bianco, qualche accensione di rosso o di giallo).
Rainer-Vedova: Ora (questo il titolo della mostra al Magazzino del Sale e allo Spazio Vedova di Venezia, dal 23 aprile al 30 ottobre) non propone solo 23 opere più un video di un minuto e mezzo (per Vedova) e 25 di Rainer. Curata da Helmut Friedel e Fabrizio Gazzarri, organizzata dalla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova con il sostegno di Generali Valore Cultura, la mostra rappresenta infatti un passo definitivo verso quel Museo Vedova che — come spiega il presidente della Fondazione Vedova, Alfredo Bianchini — dovrebbe nascere nella seconda metà del 2023 negli spazi della Fondazione e dei
Magazzini del Sale con l’ampliamento del bookshop, più un terzo spazio ancora in via di acquisizione. È stata appena annunciata l’istituzione del comitato scientifico destinato a occuparsi del progetto, degli obiettivi, della strutturazione del nascente museo (oltre a Bianchini ci sono Luca Massimo Barbero, Gabriella Belli e Philip Rylands).
Sarà un museo che dovrà lanciare segnali di vitalità alla città e di solidità per l’opera di Vedova, testimoniando l’idea di una pittura intesa come esistenza. Con una prima sala che, come nella mostra milanese del 2019 nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, offrirà su tre lati un panorama dei vari periodi dell’autore di quella Tensione del 1959 venduta nel 2017 per 792.500 euro (tra i prestiti eccellenti già annunciati i sette plurimi dell’Absurdes Berliner Tagebuch ’64 donati da Vedova alla Berlinische Galerie nell’autunno del 2002).
Nel 2003 la reggia neoclassica del Museo Correr aveva ospitato oltre cinquanta opere di Arnulf Rainer dedicate a un idolo della sua giovinezza, Antonio Canova: immagini ottenute lavorando su fotografie delle più importanti sculture canoviane attraverso un universo di segni, colori e interventi pittorici che le avevano trasformate in opere inedite, contempora
nee per freschezza e lirismo. Quello di Rainer è dunque un ritorno a Venezia, un ritorno che l’artista ha raccontato così a «la Lettura». Come e quando è nato il suo legame con Emilio Vedova?
«Ci siamo incontrati più volte sin da gli anni Sessanta, quando Vedova esponeva a Vienna, ma anche in occasione della Biennale a Venezia e pure a Documenta 6 a Kassel, edizione alla quale abbiamo partecipato entrambi». Che cosa vi avvicinava e che cosa, invece, vi divideva?
«Ci accomunava una sorta di manifesta professione di fede nei confronti della pittura, la grande forza dei colori: potenti e immediati mezzi di espressione in continuo sviluppo attraverso la nostra esperienza. Entrambi abbiamo incluso la fotografia nel nostro lavoro. Direi quindi che ci accomuna una certa somiglianza di fondo. Siamo invece decisamente diversi nelle misure dei nostri quadri. Mentre io cerco di stare dentro dimensioni umanamente raggiungibili, vale a dire nessun formato che io non possa raggiungere da terra con un pennello, le opere di Emilio possono arrivare anche a 4 metri. Personalmente cerco i fondamenti della pittura più in ciò che rimane celato, segreto, sovrapponendo diversi strati di colore come nelle Sovrapitture degli anni Cinquanta-Sessanta o lavorando direttamente con il mio corpo, come negli autoritratti e nelle fotografie per Face Farces e Body Language dei primi anni Settanta».
Quasi un dialogo tra opposti...
«Sono stato il primo ad avere sperimentato gli ingrandimenti fotografici sovradipinti, sono una delle mie scoperte, nonché un’innovazione significativa nella storia della pittura. Vedova, al contrario, utilizzava la fotografia con motivazioni riferite a eventi storico-politici. Vedova usava in modo sperimentale anche il fotocollage per modificare gli originali. Infine, attraverso una scansione spaziale ha aperto alla tridimensionalità. Mentre io mi confrontavo con l’intera gamma, lui concentrava lo spettro cromatico essenzialmente sull’uso di bianco, nero, rosso e relative sfumature». Come viene raccontato in mostra questo vostro legame?
«Ci sono due libri del XVIII secolo con le calcografie delle sculture antiche di Venezia che ho rielaborato e sovradipinto: ricordo che un giorno lasciai lo studio come facevo quando veniva qualcuno a vedere i miei lavori dopo aver spiegato la mia ossessione nel collezionare libri antichi. Vedova rimase affascinato dalla decina di volumi che gli avevo preparato. C’era il silenzio più totale e si sentiva solo il fruscio delle pagine. Chiese di vederne ancora, colpito dalla potenzialità espressiva nell’utilizzo delle immagini. Le due parti dell’esposizione sottolineano sia le affinità sia le differenze».
Per lei l’esperienza artistica «è concepita nel contatto responsabile con le vicende del proprio tempo». Quale potrebbe essere questo contatto in un momento difficile segnato dalla guerra in Ucraina e, prima, dalla pandemia?
«Le mie Croci, i miei Tondi sono immagini del cosmo, sono combinazioni cromatiche che scorrono come lacrime di colore, mostrando ciò che intendo esprimere. La Croce è la sintesi del volto umano. Queste Croci sono segno della sofferenza, ma anche della bellezza e della tragedia della conditio humana e appaiono come la più appropriata risposta all’attuale malefica guerra o alle pesanti conseguenze a tutti i livelli della recente pandemia. Nei Tondi si aprono spiragli di speranza, di perfezione, di pace, di infinito. Certamente le opere di Emilio, che parlano del progressivo disfacimento di Venezia o di annientamento dell’uomo, sono riferimenti percepibili e incredibilmente chiari alla situazione attuale. Proprio quell’Ora che c’è nel titolo sintetizza alla perfezione l’atemporalità dei lavori di entrambi. Perché la vita è così».