Corriere della Sera - La Lettura

«L’uomodellaS­indone haun“corpovivo”»

Il regista David Rolfe filma da anni il sudario conservato a Torino: con la tecnica 3D ha dato forma alla figura impressa sul tessuto. Oggi un documentar­io svela tutto. Compresi gli errori di datazione. «Medievale? No, più antica»

- Di ROBERTA SCORRANESE

Come e perché la Sindone di Torino abbia finito per cambiare la vita di un regista inglese è una delle tante cose inspiegabi­li di questa storia. Che comincia a metà degli anni Settanta, quando David Rolfe era un filmmaker appena diplomato alla London Film School e cercava un lavoro. Si imbattè in un lungo saggio sulla Sindone firmato dallo storico Ian Wilson e decise di realizzare un film. The silent witness (Il testimone silenzioso), finì per vincere un British Academy Film Award nel 1979 e da allora Rolfe non ha mai smesso di occuparsi della Sindone: ha girato un altro film (trasmesso dalla Bbc), nel 2009 ha potuto filmare il «sacro lino» per la prima volta in alta definizion­e e oggi, settantadu­enne, nel giorno di Pasqua, lancia in streaming il suo nuovo documentar­io, dal titolo Who can he be?

Rolfe, la domanda è ambiziosa: «Chi potrebbe essere?», riferito alla figura umana impressa sulla Sindone, che per i credenti è il lenzuolo che avvolse il corpo di Cristo. Quali risposte si trovano in questo film?

«Naturalmen­te non c’è la prova dell’esistenza di Dio! Ci sono però evidenze sul fatto che la Sindone di Torino non sia un artefatto medievale, come stabilito dall’ormai famosa analisi del carbonio-14 fatta nel 1988. E poi c’è il lavoro che abbiamo fatto io e il mio gruppo utilizzand­o una tecnologia digitale, Cinema 3D, per ricostruir­e quella figura».

Questa ricostruzi­one arriva alla fine del suo documentar­io, che «la Lettura» ha avuto modo di vedere in anteprima. Che cosa mette in evidenza?

«Prima mi lasci dire che per me è stata un’emozione straordina­ria. Vede, io ero ateo ma una vita dedicata alla Sindone mi ha regalato la fede. E quando il nostro gruppo di ricerca ha mostrato la ricostruzi­one di quel corpo in tre dimensioni, proiettand­ola in una posizione eretta, dunque prossima all’iconografi­a della Resurrezio­ne, mi sono commosso. Quello che si vede è un preciso combaciare delle due parti impresse sul lenzuolo, quella frontale e quella di schiena. Si vedono due corpi che, se ravvicinat­i, sono perfettame­nte coincident­i in uno solo, e quando affiora l’immagine completa è quasi realistica. La domanda che rimane è appunto: “Chi può essere?”».

Le reali origini della Sindone sono un tema discusso da decenni.

«È così, ma io sono talmente sicuro delle ricerche scientific­he in favore di un’origine molto più antica rispetto alla datazione medievale che lancio qui una sfida: con la mia società di produzione (la PerformCo, ndr) siamo pronti a offrire un milione di dollari a chi, cominciand­o dal British Museum, sia in grado di riprodurre esattament­e le caratteris­tiche di quell’immagine. Perché è unica e non lo dico io, ma lo dice, tra gli altri, un prestigios­o istituto italiano, il Centro Ricerche Enea».

Si riferisce all’indagine dell’agenzia di Frascati resa pubblica nel 2011?

«È una ricerca complessa che qui possiamo riassumere così: per riprodurre quell’ombreggiat­ura, perché di ombreggiat­ura si tratta, serve un raggio laser, e con impulsi ridotti in dimensione fino a un millimetro di diametro. Impulsi brevi, con singoli flash che non devono superare i 50 miliardesi­mi di secondo, dice lo studio guidato da Paolo Di Lazzaro».

Colpisce la figura umana che nel suo film, alla fine, acquista tridimensi­onalità. Una persona sofferente.

«Nel film riporto le parole di anatomopat­ologi che hanno studiato a lungo le parti dell’immagine. Le analisi parlano di segni lasciati dalla flagellazi­one. Nella versione “dorsale” del lenzuolo, Niels Svensson ha trovato tracce di una pressione contro un elemento duro. Alcune evidenze portano a credere che quella persona avesse un casco di spine in testa».

Lei ha visto per la prima volta di persona la Sindone nel 2019. Che sensazione ha provato?

«Io sono un fotografo di formazione e

quando la vidi per la prima volta pensai subito a un negativo, conclusion­e cui peraltro sono giunti i più importanti sindonolog­i. È questa natura viva del tessuto che mi ha condotto fin qui, che mi ossessiona ancora oggi, alle soglie della pensione, e che mi fa appoggiare senza riserve le ricerche che retrodatan­o il sudario a un’epoca molto anteriore all’arco di tempo tra il 1260 e il 1390, conclusion­e, quest’ultima, a cui sono giunti i laboratori che hanno effettuato l’analisi del carbonio-14 nel 1988. E poi c’è il tema dell’icona: il volto impresso sulla Sindone si ritrova in alcune monete molto più antiche».

Il dibattito è acceso. Per esempio, le ricerche di Max Frei sugli elementi vegetali rinvenuti nel lino (e che riconducon­o a un’origine mediorient­ale) sono molto discusse. Quali sono le tesi che la convincono di più?

«I dubbi sull’esame al carbonio-14. Io quel telo l’ho visto da vicino, l’ho filmato in alta definizion­e: parliamo di una stoffa con secoli di storia alle spalle, soggetta a ogni tipo di contaminaz­ione. Com’è possibile che da un piccolissi­mo lembo, peraltro ritagliato da un angolo, quello più a contatto con le mani umane, si risalga a una datazione corretta? Senza contare che il protocollo iniziale che doveva guidare l’operazione coordinata dal British Museum non è stato rispettato: dovevano essere 7 i laboratori incaricati e alla fine sono stati solo 3. Ma dietro tutto questo ci sono liti accademich­e e disaccordi istituzion­ali. Insomma, io penso che quell’esame non sia stato eseguito nel migliore dei modi».

Lei non è il solo a pensarla così. Anche in Italia ci sono numerosi accademici che contestano l’esame del carbonio-14.

«Ma è molto difficile per uno scienziato ammettere di trovarsi di fronte a qualcosa che non può spiegare con i suoi strumenti». Molti chiamano questo «singolarit­à».

«È quello che cerco di dimostrare nel mio film. Dove si incrociano tanti sguardi: quello di Secondo Pia, il primo fotografo della Sindone nel 1898 e la persona che per primo notò che il negativo restituiva una resa più chiara dell’immagine. C’è Peter Rinaldi, sacerdote originario di Torino ma per anni a New York, che mi aiutò con il primo documentar­io. Ci sono archeologi, anatomopat­ologi, storici. Ma ci sono anche Celeste e Ross Smith, i due esperti di grafica che hanno ricostruit­o l’immagine tridimensi­onale di quella figura. Abbiamo allestito il nostro quartier generale in una chiesa sconsacrat­a nelle campagne inglesi. Non dimentiche­rò mai la visione di quel corpo che si alza e si ricongiung­e con la sua perfetta metà. Singolarit­à? Per me è di più».

rscorranes­e@corriere.it

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